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E' davvero giusto definirla guerra?

  • Luigi Sorrentino
  • 30 mar 2020
  • Tempo di lettura: 2 min

Aggiornamento: 21 mar 2021

Si parla costantemente di guerra. Il 22/03 il Commissario all’emergenza Covid-19, Domenico Arcuri, ha affermato durante la trasmissione di Lucia Annunziata: “Noi siamo in guerra e io devo trovare le munizioni per far sì che questa guerra il nostro Paese la vinca prima e meglio degli altri”; sono dichiarazioni molto chiare che testimoniano la drammaticità del momento ma che allo stesso tempo non rendono onore alla realtà dei fatti, tirando in ballo, per di più, due termini assolutamente inadatti se posti in relazione con le delicate condizioni che anche altri Paesi, oltre al nostro, stanno conoscendo: “prima” e “meglio”.


L’obiettivo non pare tanto quello di essere capaci di debellare il contagio quanto il riuscire a farlo “prima e meglio degli altri” e questo sì che va annoverato tra gli atteggiamenti tipici in un regime di conflitto, peccato che il nemico sia unico e comune a tutti e che l’esperienza delle guerre sia ben altra cosa rispetto a ciò cui stiamo assistendo. Coloro che hanno sperimentato le vicissitudini e le devastanti conseguenze economico-sociali dei conflitti bellici ben conoscono il significato del termine “privazione”. Guerra è ciò che sta insanguinando Idlib, in Siria, dove incessanti bombardamenti costringono migliaia di persone ad abbandonare la propria casa, a fuggire lontano dalla propria terra natia in cerca di un miracolo, il quale troppo spesso è una fantasia che non si traduce in realtà. Questa vicenda che stiamo oggi vivendo non rispecchia neanche lontanamente le limitazioni, alle volte totali, e le costrizioni profonde cui sono soggetti gli individui che vivono quotidianamente la disperazione dei conflitti armati.



Eppure i riferimenti e le analogie proliferano praticamente ovunque in questi giorni, dalle testate giornalistiche ai notiziari, ai talk di attualità politica.

Questi improbabili riferimenti alla realtà economico-sociale, ma anche produttiva e individuale del conflitto appaiono vuote e prive di senso, riflesso dell’esigenza implacabile di noi individui contemporanei di ricercare in ogni modo, con ogni formula il metro di paragone della realtà, illudendoci che le varie realtà contingenti siano in ogni circostanza commisurabili; è un sovrapponimento forzato, che ci spinge ad evitare le best practices fondate sul confronto mirato e razionale di concetti e contesti, attori e impalcature, interessi e idee.

La portata del problema si amplia se teniamo in considerazione che questa ossessione della ricerca ad ogni costo di un termine di confronto evidenzia la necessità impellente di decodificare ciò che sta accadendo, e per farlo si ricorre in modo confuso all’accostamento di concetti non sempre conciliabili, il cui confronto non genera una sintesi logica. Ad una parte dell'opinione pubblica apparentemente sfugge che reclamare informazioni coerenti e verificate, e analizzare tali informazioni in relazione al contesto, sarebbe sicuramente più prolifico dell’affidarsi ad improprie speculazioni giornalistiche o dichiarazioni infelici come quella del commissario Arcuri. Nella situazione di emergenza che stiamo vivendo è vitale capire con cosa si ha a che fare, e per riuscirci è fondamentale approcciarsi alle informazioni con senso critico, senza ingigantire né sminuire, solo così ne usciremo evitando di fare insensati e riprovevoli paragoni.

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