Italexit: strappo minoritario o coscienza diffusa?
- 28 mar 2020
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 21 mar 2021
L’ormai confermata Brexit ha svolto indirettamente una funzione propulsiva dei sentimenti euroscettici condivisi all’interno dell’Unione Europea, dimostrando che divincolarsi dai legami comunitari è un’opzione possibile e perseguibile. Ma lo è davvero per chiunque? È necessario ricordare che la realtà britannica è peculiare a causa di diversi fattori: anzitutto è stato adoperato il mantenimento della sterlina e in secondo luogo appartiene al Commonwealth, organizzazione intergovernativa che non si configura come unione politica, ma che si pone piuttosto l’obiettivo di generare un clima di cooperazione economica ed interscambio tra gli Stati Membri. Ciò evidenzia significative divergenze dalle condizioni in cui versa l’Italia, su cui grava oltretutto un debito pubblico (di cui il 35% estero) che nel 2018 equivaleva al 134,8% [1] del rapporto Deficit/Pil e il quale, in caso di cambio di valuta, sarebbe destinato ad essere saldato in euro facendo ricorso ad una nuova moneta svalutata. Ma non è tutto, il debito italiano vanta anche il più alto tasso di rischiosità dell’eurozona, dato questo che emerge dall’analisi del mercato dei cds (credit default swap) che come si evince dalla lettura delle pagine del Sole24ore del 18 gennaio “stando a quando indicano questi contratti che misurano quanto costa coprirsi dal fallimento […] l’Italia è il Paese dove questa sorta di polizza costa di più. I cds italiani con scadenza 5 anni costano (122) addirittura più della Grecia (120). Il distacco di Spagna (41) e Portogallo (37), ovvero degli altri Paesi un tempo annoverati nella categoria “periferia dell’Eurozona” è ancora più profondo”. Ma esiste una possibile correlazione tra l’andamento dei cds in questione ed il temuto rischio di Italexit da parte degli investitori? A quanto pare sì ed è sempre Sole24ore ad evidenziarne le correlatività: “La riprova che “il rischio politico a trazione Italexit” sia la molla che ha avvicinato i rendimenti italiani a quelli greci negli ultimi mesi […] arriva osservando l’andamento di un altro cds sull’Italia, quello che copre solo dal fallimento del debito sovrano e non dalla eventuale ridenominazione del debito in altra valuta (in caso di Italexit). […] L’altro cds - quello che non copre da Italexit in sostanza, costa 78, 44 punti in meno rispetto al primo. Ciò vuol dire che se l’ipotesi Italexit fosse percepita come poco probabile dagli investitori anche il costo del primo cds (122) tenderebbe ad allinearsi al secondo (78)”. Kathrin Muehlbronner, responsabile di Moody’s per il rating italiano, ha recentemente dichiarato che i fattori che comporterebbero il declassamento dell’Italia da parte di Moody’s riguardano, oltre al basso tasso di crescita potenziale e alla particolare vulnerabilità agli shock [2], le “politiche fiscali in grado di aumentare il debito pubblico e un aumento del rischio di Italexit” [3]. Attualmente il rating italiano stimato dall’agenzia statunitense, in relazione al terzo trimestre del 2019, corrisponde al livello Baa3 e ciò rappresenta il segno evidente di un progressivo calo fiduciario nei confronti della solidità della nostra economia che perdura ormai da molti anni, basti pensare che il 1991 è stato l’ultimo anno in cui il rating italiano corrispondeva alla classificazione più sicura (Aaa). Tra le altre ipotesi che limitano fortemente le possibilità di Italexit vi è poi senz’altro l’incombenza delle barriere doganali verso i principali mercati interessati dalle nostre esportazioni ovvero Germania e Francia (per un totale di circa 90 Mld annui) [4]. Risulterebbe fortemente minacciato anche il livello di esportazioni destinate al mercato statunitense poiché bisogna prendere atto del fatto che gli U.S.A. non sembrano aver intenzione di interpretare il ruolo di potenza mondiale egemone e solidale: Trump ha infatti stravolto le prerogative che hanno accomunato la politica economica estera dei suoi predecessori e oggi gli Stati Uniti rivendicano una nuova concezione, perfettamente sintetizzata dalla formula “America first”. È quindi velleitario immaginare di operare uno strappo dall’Europa e ritrovarsi favorevolmente beneficiari di un nuovo fruttuoso regime di export. Nonostante queste considerazioni la portata del fenomeno euroscettico continua a mietere consensi all’interno del nostro Paese come testimonia l’esplosione di consensi registrata dal gruppo facebook “StopEuropa: Italexit” che in appena 7 giorni è arrivato a sfiorare la cifra di 1 milione di aderenti (839.908 al 24/03). In data 22/03 l’avvocato Michele Farina, amministratore del gruppo “StopEuropa: Italexit” ha dichiarato in un’intervista a “L’Unico – quotidiano indipendente di Roma” che alle sue spalle non vi è “nessun guru, nessun segreto, e soprattutto nessun partito”, poi riferendosi alla ratio del movimento specifica: “non siamo fanatici estremisti, siamo italiani esasperati, non vogliamo l’uscita dall’Euro per ragioni ideologiche ma per ragione pratiche” [5]. Le istanze mobilitate dai sostenitori di questa prospettiva intersecano un ampio spettro di argomentazioni: dalla gravosità del fenomeno migratorio che interessa il nostro continente alla subalternità rispetto ad altre potenze europee, dall’incapacità del venir fuori da una situazione di stagnazione economica alla quasi fanatica volontà di emulazione della scissione della Gran Bretagna, identificata come strappo essenziale dalla tirannide europea che però, come evidenziato in precedenza, risulta essere un termine di paragone fuorviante ed inadatto. La prospettiva di un futuro al di fuori delle istituzioni europee, non dimentichiamolo, è stata anche impugnata pubblicamente in rivendicazioni di piazza operate da alcuni tra i maggiori partiti politici italiani; tra questi la Lega capitanata da Matteo Salvini, Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni ed il M5s (le cui intenzioni apertamente ostili all’Ue risalgono addirittura alla genesi del partito, sospinta da Beppe Grillo e dal guru del movimento, Gianroberto Casaleggio). L’argomento che oggi definiamo Italexit è principalmente una questione politica anche se ha, senza alcun dubbio, manifeste ripercussioni in altre discipline. La costruzione sociale del nemico, di cui i partiti sopra citati si avvalgono senza rimorso, ha riguardato negli ultimi 25 anni soggetti diversi, individuali e collettivi. L’inquadramento dell’Unione Europea come ostacolo al progresso e al libero sviluppo economico dell’Italia non è poi “idealtipicamente” così distante dall’identificazione del migrante economico come nemico del medesimo sviluppo. Siamo dinanzi ad un’operazione di profonda mistificazione dei fatti che agisce ben in vista, ponendo l’accento in modo marcato su questione strettamente tecniche trattandole in modo inadeguato e riduttivo, sprezzante della realtà dei fatti. Questo modo di agire è non soltanto politicamente scorretto, ma eticamente inaccettabile; tuttavia continua ad essere ampiamente popolare, se non addirittura preminente, tra gli strumenti adoperati dalle destre sovraniste di tutto il mondo in quanto, oltre a generare benefici istantanei in termini di consenso, pone in forte difficoltà le controparti sociali e politiche che riscontrano deficit organizzativi e comunicativi e che non riescono ad evolvere il piano dialettico risvegliando le coscienze addormentate nei Paesi. Sarebbe necessario fare un passo indietro e ripercorrere i passi della memoria storica, perché essa ci accomuna anziché dividerci e poiché dirada le nebbie invece di farcele calare attorno. Invece la memoria storica è frequentemente considerata polverosa e inutile, inefficace al fine di comprendere gli stravolgimenti del nuovo mondo globalizzato che, in contrasto con la sua staticità, risulta intriso di dinamismo. Invece proprio la memoria storica è un elemento fondamentale a cui ricorrere in momenti di così largamente diffuso euroscetticismo. Già nel 1834, a Berna, l’infaticabile attivismo repubblicano di Giuseppe Mazzini portava a compimento tramite il “patto di fratellanza” la creazione della Giovine Europa, il cui scopo sarebbe coinciso con il coordinamento e la riunione di tutti i popoli europei aspiranti all’indipendenza nazionale.
“Si tratta d'insegnare agli uomini che se l'Umanità è un corpo solo, noi tutti, siccome membra di quel corpo, dobbiamo lavorare al suo sviluppo e a farne più armonica, più attiva e più potente la vita”
Questa frase è inserita nell’opera “Dei doveri dell’uomo” è riassume perfettamente il principio di fratellanza e collaborazione che Mazzini pose alla base del patto di fratellanza della Giovine Europa. La volontà di attuare le istanze repubblicane e sancire i diritti e i doveri degli uomini in un regime di democraticità dell’organizzazione sociale, questo è l’obiettivo che si prefigge Mazzini e questo è il principio che dalle ceneri della restaurazione ci ha consegnato le chiavi dell’Europa unita. Dimenticarsene equivale a smarrire parte della propria identità poiché, per l’appunto, “noi tutti siamo membra di quel corpo”.

[6] G. Mazzini, "Dei doveri dell'uomo", p. 19.
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