La Mafia ai tempi del coronavirus
- Gian Marco Renzetti
- 8 apr 2020
- Tempo di lettura: 8 min
Aggiornamento: 21 mar 2021
“Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l’appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna […]” Leonardo Sciascia, Il Giorno della civetta, (1961)
Con queste parole Sciascia non lascia spazio a tante interpretazioni. Il difficile connubio tra democrazia e mafia non si compie nella prassi, ma nella mente. Nella Sicilia dell’autore, cioè nella Sicilia post – bellica, non c’era molta scelta, anche perché a non esserci era la democrazia; ognuno indossava la propria bandiera, o meglio, la bandiera di Cosa Nostra cucita, più che da appartenenza spontanea, da necessità che solo la mafia poteva colmare. Oggi la bandiera democratica è a mezz'asta, quella mafiosa sventola intoccabile.
Oggi come ieri e come domani
La storia non si ripete mai identica ma si ripete spesso in scala geografica: un avvenimento, un episodio di un secolo fa può lasciar presagire che lo stesso potrà accadere nel futuro con modalità diverse ma con lo stesso risultato. Abbiamo modo di immaginare che quello che sta accadendo in questi giorni sia una sorta di déjà-vu storico a cui siamo ormai abituati, su di un panorama più ampio. Procuratori o pubblici ministeri che avvisano l’opinione pubblica con un pop-up, di quelli fastidiosi che ormai siamo abituati a vedere ovunque, che qualcos'altro si sta muovendo, in questi giorni di immobilità. Con la stessa superficialità ce li facciamo scorrere addosso. Perché è prassi, consuetudine, immaginare che nei momenti bui per la democrazia, come per contrappasso o per macabra relazione indiretta, l’organizzazione mafiosa prolifera. Forse è prassi, consuetudine, perché vige la consapevolezza che niente può fermare la proliferazione.
Questo articolo vuole essere un po’ più di un semplice “avviso”, l’ennesimo banner che ci ricorda che nel nostro paese c’è qualcosa di malato, di astratto. L’immagine che abbiamo della criminalità organizzata nel nostro paese è fatta di storie, miti e leggende che fanno invidia all'avventura di Odisseo; sentiamo parlare di “cancro”, della “piovra”, di mafia come ideologia. Eppure è proprio il contrario, è vita di tutti i giorni. “Mafia” è affari, strette di mano, parole sussurrate, azioni concrete, visibili senza l’ausilio di strumenti sofisticati. Cerchiamo di capire, dando un rapido sguardo al passato, come questo stia riaffiorando, prepotente e, oggi come allora, osserviamolo con uno sguardo di tristezza e rassegnazione.
Una premessa è d’obbligo. In questo quadro in cui proviamo ad immaginare l’azione del “mondo sommerso”, seppur forzato e basato su ricorsi storici ancora non del tutto chiariti, con la parola mafia identifichiamo le principali associazioni per delinquere presenti sul territorio e riconosciute come tali, nonché quelle con maggiore potenziale d’azione: Camorra, ‘Ndrangheta, Cosa Nostra. Inoltre va intesa l’organizzazione criminale non come gruppo sui generis ma come meta – stato cioè come struttura politica ed economica radicata che esercita potere nel territorio, raccogliendo consenso non ottenuto esclusivamente con l’uso della forza.
Il mondo di mezzo
Partiamo da lontano per arrivare immediatamente al presente. Un salto temporale, che proveremo ad attualizzare, dell’agire mafioso. Un’immagine mai nitida - perché il “mondo di mezzo”, come disse qualcuno, è per sua natura sfocato, grigio, nebbioso – di come fare buon viso a cattivo gioco, esempio di convivenza malata, di compromesso democratico mal riuscito ma non per questo crollato.
Cesare Mori, detto il “prefetto di ferro”, fu scelto da Mussolini con un obiettivo preciso: instaurare l’ordine in Sicilia, reprimere la violenza mafiosa nei latifondi con la “bandiera” fascista. Dal 1924 al ’29, Mori condusse una spietata azione di repressione nei confronti di Cosa Nostra, fu famoso per i suoi metodi poco ortodossi con cui esercitava pressione sui mafiosi. Mussolini nel 1929 scrisse al prefetto, sollevandolo dall'incarico per “sopraggiunta anzianità” e affermando che la mafia era stata sconfitta, il cancro era stato estirpato dal Regno d’Italia. In realtà, come spiega lo storico John Dickie nel libro “Cosa Nostra”, non si sa perché Mussolini decise di richiamare Mori, sta di fatto che questo garantì alla mafia siciliana di rimanere ben nascosta fino al’43, anno in cui, con la famosa operazione “Husky”, il mondo mafioso italiano continuò ad espandere la propria influenza oltreoceano. C’è una storia che si racconta in Sicilia di un certo aereo dell’aviazione USAF che nel 1943, tre giorni dopo l’invasione, lasciò cadere un pacco in una piccola cittadina siciliana. Il pacco conteneva un foulard con una “L” ricamata sopra ed era diretto a don Calogero Vizzini. La lettera L indicava che il mittente era un personaggio abbastanza famoso nel mondo mafioso, Lucky Luciano, che con quel gesto, siglava la partnership del mondo mafioso americano con i “colleghi” siciliani.
Perché questa storia è importante? La dittatura fascista ha fatto “sommergere” Cosa Nostra, la ha messa in stand-by per alcuni anni e, nel momento in cui bisognava ricostruire, cioè nel momento in cui sono state messe a disposizione le risorse del piano Marshall e in cui c’era bisogno di reagire, è riemersa, per attingere a queste risorse e allargare la propria influenza, forte dei legami con gli americani. La ricostruzione in Sicilia, come testimonia il Sacco di Palermo (l’enorme boom edilizio degli anni ’50), fu un prodotto di mafia e politica: se Salvo Lima fosse vivo ce lo potrebbe raccontare, ma questa è un’altra storia. Cent’anni dopo, la storia si ripete, su scala nazionale.
Il coronavirus produrrà una crisi economica e sociale, di scala nazionale. Stessa crisi prodotta dalla fine della Seconda guerra mondiale: povertà e insicurezza nel futuro. Entrando nel concreto, con analogie e sguardi al passato, andiamo a vedere come e perché il mondo “sommerso”, riprenderà vigore e consenso ma, soprattutto, cerchiamo di comprendere quale sarà il ruolo dello Stato nel contrasto a tale diffusione.
Dove agisce la criminalità organizzata
In un articolo de “Il fatto quotidiano” (che potete trovare qui: https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/03/30/coronavirus-laltra-epidemia-lemergenza-assist-per-le-mafie-di-matteo-boss-puntano-a-prendersi-aziende-in-difficolta-tartaglia-crisi-terreno-fertile-per-i-clan-grasso-stato-deve-i/5753654/) Federico Cafiero De Raho e Pietro Grasso (rispettivamente procuratore ed ex procuratore nazionale antimafia) spiegano in che modo la mafia potrebbe insediarsi in rami dell’economia legale ritenuti ancora “sani” e come potrebbero far leva sulla necessità di alcune famiglie e aziende per arrivare dove lo Stato non può – il lavoro in “nero” in Italia è pari al 12,1% del PIL secondo le stime del triennio 2014\2017 condotte da ISTAT (trovate qui il file https://www.istat.it/it/files/2019/10/Economia-non-osservata-nei-conti-nazionali-2017.pdf), con 3 milioni e 700 mila lavoratori che percepiscono in nero; il 41,7% del sommerso economico si concentra nel settore del Commercio all’ingrosso e al dettaglio, trasporti e magazzinaggio, attività di alloggio e ristorazione; a testimonianza del fatto che la maggiore percentuale di lavoro nero si registra nel Sud Italia, con la Calabria al primo posto, in cui la percentuale di sommerso arriva al 20,9%, un altro dato è quello relativo al reddito di cittadinanza: di circa un milione di famiglie che lo percepiscono, il 61% si trova nelle regioni del Sud Italia. In una situazione di emergenza lo Stato potrebbe non essere in grado, non avere abbastanza potere per aiutare tutti, cioè quelli per cui lo Stato non è mai esistito. Facendo un paragone forzato quanto crudele, la trattativa Stato - Mafia è un prodotto di questa convivenza morbosa, in cui poco si poteva fare, se non chiudere un occhio. I due intervistati lanciano l’allarme, come lo richiede il loro lavoro e il lavoro di tanti, come quel Cesare Mori, poi deposto, sempre dallo Stato. L’antimafia fa il suo lavoro, come il lavoro di un certo generale Dalla Chiesa o di Pio La Torre, entrambi uccisi nel 1982; loro, come tanti altri, non volevano chiudere un occhio. Insomma, nel 2020 quello che i due procuratori non dicono riguarda il fatto che al governo potrebbe addirittura convenire che la mafia si infiltri nella “gestione” dell’emergenza. Le ragioni sono esplicitate più avanti.
L’intelligence: il sud Italia a rischio
Il pericolo di una “rivolta” è concreto. Lo Stato non ha ancora implementato le misure per la cassa integrazione e molti lavoratori già si trovano in difficoltà. In questo scenario critico c’è bisogno di liquidità, per le famiglie e per le aziende. Oggi la mafia ha a disposizione denaro contante, frutto dei proventi “classici” della malavita (gioco d’azzardo, estorsione, prostituzione, traffico di droga ecc.), ed è in grado di metterlo a disposizione di chi ha necessità, proprio come se fosse un’istituzione, un para-stato. L’intervento della criminalità organizzata servirebbe a sedare gli animi di chi è giunto al collasso e non vede più una via d’uscita. Questo vale per famiglie ed aziende che, incoraggiate dalla disponibilità liquida di capitale mafioso, potrebbero scendere a compromesso con le organizzazioni e dichiararsi disposti a pagare una percentuale a vita, o peggio ancora a riciclare denaro. In altre parole, l’intervento mafioso potrebbe essere sia una conseguenza “reattiva” al fatto che lo Stato non arriva in tempo a garantire sicurezza ad alcuni cittadini, spaventati dal realtà di non poter lavorare da un giorno all'altro, sia un evento “proattivo”, cioè prodotto dall'insicurezza di una fascia di popolazione a cui conviene rivolgersi più al criminale che all'istituzione.
Il riciclaggio di denaro
Proprio come accaduto in passato, la crisi è un’occasione, un’opportunità. Se negli anni ‘50 la ricostruzione ha fornito ai mafiosi il pretesto per costruire ovunque, investendo quei proventi immobili che non avrebbero saputo come gestire, nel 2020 il coronavirus rappresenta la stessa opportunità, su scala regionale o addirittura nazionale. Le organizzazioni mafiose hanno bisogno di investire il denaro che hanno a disposizione, per farlo legalmente però hanno bisogno prima di “lavarlo”. Questo perché altrimenti quel denaro sarebbe riconducibile ad una operazione illecita e quindi non più utilizzabile. Da questo nasce l’opportunità. Avendo a disposizione tante aziende che, ora come ora, non possono lavorare, è più facile cedere al ricatto di farsi aiutare in cambio di un piccolo compromesso: utilizzare i proventi illeciti nel proprio business. In questo modo, per semplificare, i soldi introdotti nel circuito di un hotel da un turista finiscono nelle mani dell’organizzazione mafiosa che introduce nell'albergo i proventi illeciti rendendoli “puliti”. Questo vale per la manodopera che lavora nei campi, ora senza lavoro, alla quale i mafiosi possono offrire una speranza “tassandoli” con un pizzo. Vale per gli investimenti in infrastrutture, quei famosi appalti pubblici in cui la mafia si infiltra con estrema facilità (proprio oggi la notizia del crollo di un ponte di 300 metri che collega La Spezia e Massa). Insomma l’occasione c’è ed è ghiotta.
Tutto questo quali conseguenze porta? Un complessivo indebolimento delle istituzioni porta insicurezza e danneggia l’economia ma, soprattutto, sfiducia le istituzioni. Il Governo è il parassita e il mafioso è l’alternativa, spesso moralmente accettata. Dalle parole di Sciascia, questo porta ai nostri occhi la difficoltà di rendere l’Italia unita sotto un’unica bandiera (ma lo stesso vale per l’Europa, dove altre mafie agiscono), trasforma l’ottimismo in rassegnazione e la reazione del mafioso diventa sempre più un modo di agire consuetudinario. Parlare di morale e legalità qui non conta più, poiché a contare è proprio il contante, quello che manca, così tanto da andarlo a cercare ovunque. Le strategie del mafioso, tuttavia, sono auto interessate. Per quanto se ne voglia, non c’è morale, solidarietà o benevolenza. C’è interesse, e basta. Niente è paragonabile all'agire dell’organizzazione mafiosa, se non l’azione di uno Stato, una nazione senza confini netti che ha come costituzione il denaro e come cittadini solo gli affiliati. Il resto è uno strumento. La natura è uno spazio pubblico, la legge una favola. Infine, la mafia non fallisce, non va in default e non conosce crisi che non possa superare.
La criminalità organizzata si combatte in un solo modo, che mai come ora è stato più utopico. Sciascia ammette che è stato il fascismo a creare una bandiera comune, seppur in modo forzato, e che solo il fascismo è stato in grado di sconfiggerla, seppur per poco. Qual è la ragione? La mafia vince sempre, a meno che non incontri un’istituzione, un’entità statuale più solida e coesa dell’organizzazione mafiosa stessa, con cui non può scendere a compromessi, contro cui non può sventolare nessun’altra bandiera perché non verrebbe accolta da nessuno.
La ricchezza della mafia cresce quando tutto il resto va in malora, quando il lavoro non c’è e il cibo sulla tavola manca “il padrino” ci viene incontro e ci dice che ci aiuterà perché non c’è nessuno che può farlo, in cambio, ci dirà di non volere niente. Lo farà con queste parole, rubate a Don Vito Corleone interpretato da un surreale Marlon Brando “Un giorno, e non arrivi mai quel giorno, ti chiederò di ricambiarmi il servizio, fino al allora consideralo un regalo per le nozze di mia figlia”.
Per approfondire
Leonardo Sciascia, Il giorno della Civetta, Einaudi, 1961
John Dickie, Cosa Nostra, storia della mafia siciliana, Laterza, 2007
Mario J. Cereghino,Giuseppe Casarrubea, Operazione Husky: Guerra psicologica e intelligence nei documenti segreti inglesi e americani sullo sbarco in Sicilia, Edizioni Morrone, 2014
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