Porti chiusi e tanta rabbia
- 10 apr 2020
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 12 apr 2020
Il Mediterraneo è stato per secoli il centro del mondo, culla di civiltà avanguardistiche, cuore pulsante del commercio e teatro di grandi battaglie. Oggi quest’ultime sono le
uniche protagoniste, ma attraverso logiche profondamente diverse.
Oggi il Mare Nostrum non è al centro dell’attenzione mediatica a cui siamo stati abituati nei mesi passati. In questi giorni lo sguardo di tutti è rivolto altrove: segue con attenzione le vicende economiche che sono al centro della discussione dell’Eurogruppo, si rivolge incredulo alle drammatiche immagini delle “fosse comuni” che arrivano da New York, si focalizza sulle problematiche interne ai singoli Stati nazione che versano tutti in un momento di grandi difficoltà e limitazioni. In un precedente articolo si è voluto specificare le motivazioni per cui non andrebbe utilizzato a sproposito il termine “guerra” per riferirsi all’emergenza che stiamo vivendo, perché la guerra è ben altro. Oggi ritengo necessario riprendere quel ragionamento e declinarlo ulteriormente. L’esigenza di ciò deriva da avvenimenti strettamente connessi a quelle realtà in cui quotidianamente si affrontano le conseguenze del conflitto armato, dell’esodo e della paura di perdere i propri figli, genitori, fratelli; di vederli perire a causa di un bombardamento o un attacco chimico anziché di un virus silenzioso.
Secondo dati del Viminale dal 1° gennaio ad oggi sono sbarcate in Italia 3.050 persone [https://www.interno.gov.it/sites/default/files/cruscotto_statistico_giornaliero_10-04-2020.pdf], un dato più che quadruplicato rispetto allo stesso periodo di riferimento per l’anno precedente. Di queste 3.050 persone la maggioranza risulta “richiedente asilo” e per questo motivo sono stati predisposti spostamenti presso le strutture dislocate sul territorio, i c.d. hotspot. Ma facciamo qualche dovuta considerazione. In Italia accanto alle politiche migratorie è stato predisposto un sistema di accoglienza imperniato sugli enti locali che realizza progetti di “accoglienza integrata” sul territorio: il Sistema di Protezione per Richiedenti asilo e Rifugiati (SPRAR). Attraverso il Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo, il Ministero dell’Interno rende disponibili risorse cui gli enti locali possono attingere in seguito alla predisposizione e alla preventiva comunicazione di un adeguato progetto relativo alle materie discusse. Grande risalto hanno dunque le realtà locali nella gestione delle dinamiche di accoglienza e integrazione, le quali si avvalgono di diverse tipologie di centri con funzioni differenti. Esistono quattro Cpsa (Centri di primo soccorso e accoglienza), quindici tra Cda (Centri di accoglienza) e Cara (Centri di accoglienza per i richiedenti asilo) e cinque Cie (Centri di identificazione ed espulsione). Assieme alle amministrazioni locali collaborano a queste funzioni organizzazioni del terzo settore, che come si evince dalle comunicazioni del Viminale, svolgono un ruolo fondamentale nei processi di realizzazione sinergica degli interventi [https://www.interno.gov.it/it/temi/immigrazione-e-asilo/sistema-accoglienza-sul-territorio].
Tutto perfetto fino a qui, peccato che le strutture a disposizione per l’accoglienza siano inadeguate, fatiscenti, dismesse: spesso luoghi in cui non si potrebbe vivere in 3 ospitano anche 10 persone. Questi luoghi sono chiaramente inadatti a favorire il rispetto delle misure cautelative di distanziamento sociale imposte dal Covid- 19, motivo per cui i residenti di molte aree interessate dalla presenza di hotspot si dicono molto preoccupati. A Lampedusa, ma non solo, emergono dichiarazioni fortemente polemiche nei confronti della gestione di questa “emergenza nell’emergenza”, e si afferma che mentre gli italiani sono costretti all’isolamento i richiedenti asilo se ne vanno liberamente in giro rischiando di propagare il contagio.
Le crescenti preoccupazioni e la consapevolezza dell’impossibilità di predisporre misure adeguate sono le motivazioni alla base del decreto firmato dai ministri Speranza, Lamorgese, Di Maio e De Micheli, in cui si dichiara che: “I porti italiani non assicurano i necessari requisiti per la classificazione e definizione di ‘Place of Safety’ in virtù di quanto previsto dalla Convenzione di Amburgo, per i casi di soccorso effettuati da parti di unità navali battenti bandiera straniera, al di fuori dell’area SAR italiana”. Si afferma dunque che i nostri porti non sono sicuri - e quale porto lo è? – e che le navi da soccorso straniere non saranno autorizzate allo sbarco sul suolo italiano. Il provvedimento ha subito interessato la nave da soccorso Alan Kurdi appartenente alla ONG tedesca Sea-Eye. Si tratta di una delle pochissime navi da soccorso che in queste settimane solcano il Mediterraneo alla ricerca di anime alla deriva. Attualmente si trova ancora in mare, in attesa di indicazioni, con a bordo circa 150 persone. Nonostante ciò lo stesso ministro degli interni tedeschi ha intimato alla Sea-Eye di fermare la propria attività di salvataggio in mare e ritirare le proprie imbarcazioni [https://www.repubblica.it/solidarieta/immigrazione/2020/04/08/news/immigrati-253477721/]. Sono provvedimenti destinati a far discutere e, soprattutto, ci spingono a porci domande in merito a cosa si poteva fare prima. Se avessimo investito più risorse nelle politiche sociali di integrazione e predisposizione delle strutture si sarebbe potuta evitare questa chiusura? Sarebbe stato possibile aiutare queste persone che ora, oltre alla paura del virus, si ritrovano ammassati su una nave che è ancora alla ricerca di un porto?
Vorrei ricordare l’origine del nome di questa imbarcazione: Alan Kurdi è il nome di un bambino siriano, annegato all’età di soli 3 anni, mentre tentava insieme alla sua famiglia, di etnia curda, di raggiungere il Vecchio Continente.
Alan è stato ritenuto, come molti altri, sacrificabile, privato della speranza fin dalla nascita. Il perbenismo occidentale e gli imperativi economici, il falso adempimento ai principi cristiani, la necessità consumistica che muove le nostre vite e accresce la nostra avidità: questo ha ucciso quel bambino. Oggi l’emergenza sanitaria e la crisi economica che ci attanagliano non possono spingerci a dimenticare che ci sono - proprio adesso - dei bambini come Alan Kurdi, che hanno bisogno di sbarcare, di raggiungere le speranze che hanno inseguito con indicibili sofferenze e privazioni.
All’inizio di quest’anno, precisamente il 2 febbraio, è avvenuto il rinnovo automatico del memorandum di intesa sui migranti stipulato con il Governo di Tripoli. Così facendo è stata quindi confermata l’intesa con la Libia in merito alla gestione del fenomeno migratorio. Soltanto il 9 febbraio, con una settimana di ritardo, la Farnesina ha inviato a Tripoli la richiesta di modificare alcuni punti dell’intesa, nella speranza che si potessero aggiungere sensibili modificazioni [https://www.internazionale.it/bloc-notes/annalisa-camilli/2020/02/11/memorandum-libia-italia-migranti], ma la speranza è rimasta tale. Tramite quel rinnovo automatico, dimenticato dai nostri legislatori - o, peggio, volontariamente ignorato – il nostro Paese ha nuovamente strizzato l’occhio alla Guardia Costiera libica, che edifica lager di detenzione disumani e traffica uomini, donne e bambini, lucrando sulla fiducia che queste persone ripongono nel futuro. Ci è stato raccontato di tutto: violenze sessuali poste in essere dinanzi alla presenza di minori, torture perduranti culminate nella morte, violazione dei diritti umani fondamentali, eppure continuiamo a guardare altrove, a votare il cialtrone di turno, a non sentirci direttamente responsabili del conflitto siriano e delle guerre che insanguinano Africa e Medio Oriente. L’Unione Europea ha responsabilità enormi che puntualmente ignora, e non riguardano solo i bilanci. Quanto durerà ancora il tacito consenso alla dittatura del guerrafondaio Erdogan, che ricatta l’Unione con la carta dell’apertura ai flussi migratori? Siamo colpevoli di questo sistema e ciò ci rende indirettamente responsabili di tante vite spezzate prematuramente, sottoposte ad indicibili sofferenze che mai ci auguriamo di sperimentare.
Continueremo a puntare l’indice altrove o riusciremo finalmente a capire che l’unico scopo dei confini geografici è indicare la divisione formale dei territori e non la sostanziale differenza tra i popoli?

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