Sono le 20 di sabato 7 novembre negli Stati Uniti, quando Joseph Robinette Biden Jr. annuncia la propria vittoria ai microfoni della nazione. Una vittoria netta che riporta i democratici alla Casa Bianca
Dopo quattro turbolenti anni Donald Trump esce di scena sconfitto e nemmeno troppo a testa alta. Nel confronto televisivo del 29 settembre entrambi i candidati hanno mostrato il loro “caratteraccio”: Trump incalzava Biden come uno scolaretto e Biden rispondeva a tono. Era un segnale, quello mostrato durante il primo dibattito televisivo tra i due contendenti, che negli Stati Uniti d’America, dopo il voto del 4 novembre, un vero vincitore non ci sarebbe stato. Di seguito, proponiamo un rapido resoconto della politica “trumpiana” negli ultimi 4 anni. Verranno poi messe in luce le conseguenze geopolitiche di tali scelte e come queste impatteranno sul futuro degli Stati Uniti e del mondo occidentale.
Il voto negli USA
Nel 2016 quando la sfida per la White House aveva come protagonisti Donald Trump e Hillary Clinton i votanti furono circa 138 milioni. Quest’anno hanno invece hanno votato oltre 158 milioni di persone facendo registrare un non trascurabile aumento della partecipazione al voto. Nel 2008 Obama conquistò 365 grandi elettori e fu sostenuto da 66 milioni di cittadini mentre il suo sfidante repubblicano, John McCain, con i suoi 58 milioni di consensi ne uscì di gran lunga sconfitto poiché i suoi grandi elettori furono soltanto 173. Nel 2012 Obama riuscì a riconfermarsi alla Casa Bianca ottenendo 62 milioni di voti e 332 grandi elettori contro i 206 di Mitt Romney. Poi, nel 2016, nonostante Clinton avesse fatto registrare un alto grado di consenso per i democratici (quasi 66 milioni di voti) perse con il Tycoon il quale aveva meno voti complessivi (quasi 63 milioni) ma la maggioranza dei grandi elettori: 306 contro i 232 della candidata democratica. Chi è abituato a seguire le elezioni statunitensi ormai sa bene che l’esito della tornata elettorale non dipende dal numero di voti ottenuti bensì dal numero dei grandi elettori i quali variano di Stato in Stato. La California ad esempio ne ha 55, il Texas 38, la Florida 29, il New Hampshire appena 4. Questo metodo pone quindi in forte risalto la geolocalizzazione del consenso e ne consegue che la vittoria finale dipende in buona parte dalla vittoria negli Stati “più pesanti”. Lo spoglio di queste elezioni non è ancora terminato in quanto mancano ancora poche centinaia di migliaia di schede ma l’esito è già sancito. Biden ha ottenuto fino ad ora 75,4 milioni di voti e conquistato 290 grandi elettori. Trump è stato votato da quasi 71 milioni di cittadini ma ha conquistato soltanto 214 grandi elettori. Gli Stati del Sud hanno riconfermato anche stavolta la propria tradizione repubblicana così come la costa ovest il proprio attaccamento ai valori democratici mentre il ruolo di ago della bilancia è spettato principalmente ad Arizona, Wisconsin, Pennsylvania, Michigan e Georgia che nel 2016 andarono a Trump. È innegabile inoltre che a favorire la vittoria di Biden un ruolo di primo piano sia stato giocato dalla scelta per la vicepresidenza. Puntando su Kamala Harris i democratici hanno deciso di ricercare con ambizione il voto delle donne e la scelta li ha premiati. L’ex procuratore generale e senatrice della California sarà la prima donna a ricoprire la carica di Vicepresidente degli Stati Uniti.
Come si diceva in apertura è stato registrato un notevole incremento della partecipazione al voto e ciò ha comportato un altro peculiare record: non solo Biden ma entrambi i candidati hanno superato il precedente massimo storico ottenuto da uno sfidante per la Casa Bianca. Secondo alcuni osservatori l’incremento della partecipazione è stato determinato in larga parte dalla situazione di emergenza globale legata al Covid19 la quale ha incentivato la volontà dell’elettorato di incidere sul futuro del proprio Paese che, come si sa, è determinante per l’intero assetto geopolitico del Pianeta.
L’assenza di un nemico: una nuova geopolitica
In un precedente articolo sulla situazione negli USA, scandita dalla pandemia di coronavirus e dalle proteste del movimento BLM, è emerso come gli Stati Uniti soffrano di una crisi di legittimità dettata dall’assenza di una vera e propria controparte da sconfiggere. L’assenza di un “nemico” (come lo sono stati il comunismo e il terrorismo islamico) ha avuto come effetto una “crisi d’astinenza” che ha portato la politica nord-americana a rivolgere i propri interessi altrove, in cerca di un nuovo “prodotto” per curare l’immagine di una superpotenza in stallo. Non più la sponda est dell’atlantico, non più il Medio Oriente, non più guerre. Donald Trump non ha iniziato nuove guerre (aldilà dei raid in Iran, che hanno portato alla morte del generale Soleimani) ma, anzi, ha cercato la mediazione in più di un’occasione. Con il leader nordcoreano Kim Jong-Un, Trump è riuscito a farsi strada egregiamente, andando a risolvere la spinosa escalation di minacce che avrebbe potuto produrre una contorta crisi missilistica stile cold war. Gli accordi tra Israele e i paesi Arabi del Golfo (Bahrein e Emirati Arabi Uniti) rientrano nella delicata azione diplomatica compiuta da Trump in accordo al testo “Peace to Propserity”, reso pubblico il 28 gennaio 2020. Con questo testo l’amministrazione USA si impegnava a intraprendere negoziati di pace tra Israele e Palestina; tuttavia i rappresentanti palestinesi non furono invitati al meeting in cui è stato proposto il piano “PtP”, lasciando intendere che mentre Israele riceverà i benefici (economici e politici) dell’implementazione di questo piano, stessa cosa non sarà per lo Stato palestinese che dovrà accontentarsi della mediazione USA. E ancora, di mediazione si parla anche nei rapporti con gli Emirati Arabi e il Bahrain: Trump ha creato le condizioni per riuscire a formalizzare alcuni accordi bilaterali tra gli Stati che potrebbero dare una boccata d’aria fresca alle assai poco distese relazioni internazionali. La normalizzazione dei rapporti con Israele potrebbe essere proficua se si pensa ad una cooperazione sul piano economico (forse meno sul piano politico) ma che garantirebbe all’area tra il vicino Oriente e i paesi del Golfo una nuova stabilità.
L’amministrazione Trump
È innegabile che l’amministrazione Trump, la quale ha complessivamente operato un ridimensionamento dell’egemonia americana nel resto del mondo, abbia puntato molto più sugli accordi bilaterali con paesi ad hoc (piuttosto che su quei patti multilaterali con l’Europa e alleati) e su una politica estera decisamente meno orientata al conflitto per il mantenimento del controllo militare delle aree a rischio: lo testimonia la volontà dell’amministrazione Trump (espressa da Mike Pompeo e dal presidente dei capi di Stato Maggiore USA, Mark Milley) di ritirare le truppe USA dall’Afghanistan prima di Natale 2020. Lo testimonia l’allontanamento dalle organizzazioni Internazionali delle Nazioni Unite, come è accaduto con il Consiglio dei Diritti Umani, quando il 19 giugno 2020 Mike Pompeo dichiarò che l’impegno USA per i diritti umani non era compatibile con quello di “un’organizzazione ipocrita ed egoista”. Lo testimonia anche la volontà del Tycoon di ritirare gli USA dall’OMS (decisione presa in seguito allo scoppio della pandemia di coronavirus, ma che, come già affermato da Biden, non avverrà sotto il suo mandato). Lo testimonia ancora l’abbandono dell’accordo TPP nel 2017, gli altalenanti dazi su importazioni Made in China e l’avvicinamento verso Taiwan (e anche Hong Kong) che, di fatto, hanno reso i rapporti tra le due più grandi superpotenze molto più incrinati che in passato. Non va dimenticato, infine, che la portata della pandemia (e della crisi economica che ne conseguirà) avrà ripercussioni in tutto il mondo occidentale, specialmente se gli USA non ne usciranno presto.
La partita di Biden
Tutto questo significa che Biden dovrà riportare gli USA in carreggiata? No, gli USA sono già su un binario deviato che porta in una galleria buia e senza uscita: se alla fine del tunnel c’è in palio l’egemonia occidentale nel mondo, gli Stati Uniti di Trump stavano andando in direzione opposta. Il disinteressamento internazionale e militare degli Stati Uniti però ha avuto (e avrà) notevoli conseguenze su almeno due grandi macroaree.
Da una parte l’economia: in un momento di crisi economica come quello che stiamo vivendo è cruciale infondere sicurezza e best practices da sottoporre alla “valutazione” del mondo. È quello che è successo dopo la Seconda guerra mondiale, ma è anche quello che ha fatto Obama nel 2008 per uscire dalla crisi. La creazione di un modello economico resiliente e vincente, come è stato quello americano, non può essere delegata alla storia e quindi data per scontata; è fondamentale, innanzitutto, ricreare i rapporti con Occidente e organizzazioni internazionali incrinati dall’amministrazione repubblicana (e qui Biden gioca la sua partita, ma è probabile che molte delle decisioni prese da Trump saranno vittime del famoso spoil system), ma è ancora più importante, politicamente parlando, ricreare l’immagine opaca delle democrazie occidentali.
Qui l’altro punto: se è vero che il modello occidentale ritrova le sue radici all’interno del modello democratico, l’incarico affidato a Joe Biden assume importanza vitale per la democrazia mondiale in quanto dovrà dimostrare che non è un modello in crisi, ma che è invece la più valida alternativa ai vari sovranismi di matrice occidentale e ai vari ibridi “regimi” del resto del mondo. Ciò accadrà perché se da una parte la democrazia rappresentativa racchiude al suo interno il nocciolo del modello egemone occidentale, dall’altra parte è il tallone d’Achille della nostra cultura: se questo modello (più o meno democratico, ma che almeno sulla carta è ancora tale – ed è questo che conta in questa analisi) entra in crisi, a subirne gli effetti sarà in primis l’Occidente.
Con questo, tuttavia, non si vuole investire Biden del pennacchio di una democrazia ormai obsoleta e in urgenza di aggiornamento. Pensare a ricompattare sotto l’egida di un’ideologia forte e coesa l’Occidente politico potrebbe essere l’unica strada percorribile per risollevare un’economia schiacciata dalla pandemia e dalle turbolenze di una società che, nel frattempo, è in cerca costante di punti di riferimento che i governi dei paesi più sviluppati, almeno in questo momento, non sembrano capaci di fornire.
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