Malati di hybris geopolitica, gli Stati Uniti stanno perdendo legittimità. La crisi è sanitaria e sociale: la prima prodotta da fattori esterni, la seconda è tutta endogena. Queste fratture rappresentano la punta dell'iceberg di un apparato politico\militare "scaduto" e da rinnovare.
La "pax americana" si sgretola lentamente: il controllo quasi imperialistico su molte aree del pianeta ha perso la spinta che lo caratterizzava nella seconda metà del XX secolo. La tesi per cui il mondo occidentale è sopravvissuto al "terrore russo" grazie all'intervento americano è ampiamente riconosciuta. Il prezzo da pagare, per una nazione che ha fatto della guerra la propria arma, è che in assenza di un conflitto ben definito la pax americana risulta inutile: finché risultava evidente la presenza di un nemico comune (cioè riconoscibile da tutti, sia da una parte che dall'altra, come nel bipolarismo della guerra fredda), il ruolo degli USA era imprescindibile, necessario, ora semplicemente non lo è più.
Per mostrare le evidenze a sostegno di questa tesi si analizzeranno brevemente due scenari "caldi" del XX secolo che hanno visto come protagonisti gli USA e vedremo come, nell'emergenza indotta prima dal Covid, poi dall'omicidio di George Floyd, questi scenari di guerra risultino, oltre che inapplicabili, del tutto in contrasto con l'immagine del single leader, "l'uomo solo al comando".
Il ruolo statunitense nelle Grandi Guerre
Non una ma ben due volte gli americani del Nord hanno tolto le castagne dal fuoco dei bombardamenti. Agli inizi del 1900 il PIL degli Stati Uniti era il più alto del mondo (seguito da Cina, Regno Unito e India); la più grande economia del mondo, forte del boom della belle epoque, stava gettando le basi per diventare l'impero militare che conosciamo. Una volta finita la guerra, chi può essere considerato veramente vincitore? Il territorio martoriato non era quello americano, ma quello europeo e i "nemici" a cui furono poste le condizioni per la pace erano lontani migliaia di chilometri da Washington. Il PIL americano continuò a crescere, forte di investimenti nel settore secondario e di una relativa "pace".
Il crollo della borsa nel 1929 segnò un duro colpo all'economia USA che si riprese con una relativa velocità (il PIL americano tornò a livelli pre-crisi solo nel 1940, al secondo posto nella classifica del PIL, a quei tempi, c'era la Germania nazista). La crescita economica continuò anche dopo la seconda guerra mondiale, ma soprattutto durante. Mentre in Europa la guerra distruggeva la fragile situazione economica (e politica) dei paesi, gli Stati Uniti producevano ed investivano, aiutati dal New Deal del presidente Roosevelt.
Successivamente, il piano del segretario di Stato George Marshall (quasi 13 miliardi di dollari in 4 anni in fondi da destinare all'Europa) sarà la bombola d'ossigeno dei paesi dilaniati dalla guerra per due ragioni principali: innanzitutto gli Stati Uniti erano in grado, come prima e unica super potenza, di offrire aiuti incondizionati (anche se la condizione ovviamente c'era, ed era l'ipoteca sull'aiuto nella Guerra Fredda), in secondo luogo, per poter fare affari con l'Europa, era fattore di importanza primaria che una "Europa" con cui trattare ci fosse.
In questo primo scenario bisogna ammettere che l'intervento Nord americano, oltre ad aver fatto vincere la guerra e aiutato a seppellire il totalitarismo sotto un fertile terreno democratico, ha soprattutto reso chiaro ed evidente che c'era uno Stato nel mondo (formato da 50 stati, ma con un solo presidente) con cui era impossibile scegliere di non venire a patti. Ed è proprio questa la forza che ha spinto gli USA ad impelagarsi in una delle battaglie più dure e controverse della storia americana, la Guerra in Vietnam.
La "campagna" di Pirro in Vietnam
Nel dopoguerra, al secondo posto della classifica "PIL", troviamo, anche se con un quarto del prodotto USA, la Russia comunista. Non è per ragioni legate al PIL che la seconda metà del '900 ha visto come protagonisti questi due paesi, ma per ragioni molto più complesse che intrecciano aspetti culturali con questioni di potere politico ed ideologico che sono state oggetto di numerosi studi internazionali. Tuttavia la gestione della guerra in Vietnam, prima con il giovane Kennedy, poi con Johnson, ha prodotto di fatto la prima vera sconfitta sul piano militare degli USA. Il Vietnam, insieme a Laos e Cambogia, è stato fuoco contro guerriglia, intelligence contro ribelli, eppure il risultato è stato negativo in politica estera e disastroso per l'opinione pubblica. È importante ricordare questo evento poiché segna, di fatto, il punto in cui l'egemonia americana nel mondo ha subito una battuta d'arresto. La geopolitica americana vede gli USA come il centro da cui si diramano portaerei, basi militari (presenti in larga misura in quasi ogni stato europeo) agenti d'intelligence che operano in tutto il mondo. Il Vietnam è quindi, per gli USA, una sconfitta da caramellare per non "deludere" (cioè per non perdere legittimità) il popolo americano, o meglio, l'elettorato.
Finita la Guerra Fredda: chi è il nemico?
In parole povere, l'Islam più radicale. Dopo il sostegno USA ai talebani durante l'occupazione sovietica dell'Afghanistan negli anni '80, il crescente disimpegno occidentale in Medio Oriente, causato dal crollo del muro, ha lasciato spazio alla crescita e alla radicalizzazione dei gruppi terroristici ben noti ad Europa e Nord America. Se da una parte bisognava rinvigorire il dominio americano nel mondo, dall'altra bisognava fare i conti con una nuova minaccia, non più inquadrabile all'interno dello Stato, ma transnazionale. Il terrorismo ha sfregiato il volto della Statua della Libertà, ha reso gli USA più vulnerabili. Tuttavia in questo periodo il ruolo egemonico USA, sotto egida NATO, sembrava ancora fondamentale per stabilizzare aree di crisi.
Il Covid-19 e George Floyd
In quest'ordine, uno è la miccia, l'altro l'innesco. La politica isolazionista di Trump, pur collocandosi in un periodo storico di sostanziale disimpegno americano dal conflitto globale (sia perchè i conflitti in cui inserirsi si stanno ridimensionando, sia per l'ingresso di altre superpotenze nella gestione geopolitica degli scontri - Cina, Russia, Emirati Arabi), rimane una peculiarità di questa amministrazione che adesso sta facendo i conti con l'opinione pubblica, la quale, per molto tempo, è stata "distratta" dall'azione militare e dal ruolo egemone degli Stati Uniti nel mondo.
Cosa è emerso in questi giorni? I cittadini degli Stati Uniti hanno prima esperito cosa volesse dire contare i morti sul proprio territorio, senza un nemico chiaro da incolpare (non è un caso che Trump abbia più volte ripetuto di "avere le prove che il virus sia fuoriuscito da un laboratorio cinese": ammette tuttavia di non poter divulgare le prove a sostegno della sua tesi, ma chi mette in dubbio le parole del Presidente degli Stati Uniti?) poi cosa volesse dire trovare come unico nemico da inolpare la propria amministrazione. Il clima è di terrore perché a terrorizzare i cittadini adesso è proprio il governo, che non dà risposte né spiegazioni.
Una nazione distratta, quindi, che non ha avuto modo di (o non ha voluto) prevedere cosa potesse accadere; un'amministrazione incapace di gestire la crisi sanitaria e che punta il dito invece di responsabilizzarsi. Questo è quello che sta accadendo agli USA: quando viene imposto il coprifuoco in diretta televisiva, Trump accusa i suoi governatori di non avere avuto mano pesante nella repressione delle proteste, punta il dito, di nuovo. D'altronde non è certo colpa del Presidente se un uomo è morto dopo essere stato fermato dalla polizia di Minneapolis, è invece sua diretta responsabilità il crescente clima di tensione che si sta diffondendo di pari passo con l'epidemia, e nonostante ciò Trump afferma di essere il presidente che ha fatto di più per i neri in America dopo Lincoln. L'impreparazione dell'Esecutivo non ha giustificazioni, è proprio qui invece che lo Stato deve battere un colpo per ristabilire l'ordine facendo ammenda dei propri errori, eppure si continua a mancare di accountability, remando contro quello che ha sbagliato di più.
Ci si augura che il regime militare in vigore negli USA duri il meno possibile e che le proteste vengano interpretate non come atti di terrorismo ma come prodotto delle metastasi dello Stato di diritto, che solo un'operazione rapida ed esperta da parte dell'esecutivo può curare.
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