Mario Draghi e Abdul Hamid Dabaiba a Tripoli
Il Mediterraneo, dal latino Mediterraneus, ovvero “in mezzo alle terre”, è il mare che ne ha viste di più. E' stato una delle culle della civiltà, casa di popoli navigatori che ne abitavano le coste; micenei, fenici, egiziani, greci e romani ne hanno solcato le acque per raggiungere opposte sponde. Punto di contatto di popolazioni diverse ha favorito un incredibile scambio di culture, usanze e costumi che hanno finito per intrecciarsi, fino ad arrivare ai giorni nostri. Parlare di unicità etnica del percorso evolutivo non è possibile per i Paesi che affacciano sul Mediterraneo poiché da sempre sono stati interessati dal contatto prolungato di persone provenienti da altri luoghi del mondo, donne e uomini che si sono stabiliti lontano dalla propria terra d’origine.
Ma il Mediterraneo è stato anche teatro di mille battaglie. Purtroppo continua ad esserlo anche oggi. Nel mondo contemporaneo, da ormai alcuni decenni, si è accentuata la tendenza a considerare il migrante come un invasore. Ma attenzione, non tutti i migranti sono uguali. Se un francese si sposta in Italia o in Germania con l’intenzione di trovare lavoro non è certo visto come un migrante somalo o ghanese che tenta di fare lo stesso. Il motivo di questa distinzione è strettamente connesso ad una narrazione distorta del concetto di sicurezza proposto da alcuni imprenditori politici e supportato da numerosi mass media. Ciò che, pur con tutte le complessità specifiche del caso, è per sua natura un ‘fenomeno’, come tanti altri, viene trasformato in ‘minaccia’. Ora, siccome per definizione un fenomeno può essere portatore tanto di rinnovamento quanto di catastrofe (così come può non alterare lo status quo) comprenderete che risulta privo di senso etichettare il fenomeno migratorio come una minaccia per i confini e per i cittadini che all’interno di quei confini continuano a condurre indifferentemente la propria vita. Significa infatti bollare come un problema qualcosa che potrebbe addirittura rivelarsi una soluzione ad alcuni problemi italiani ed europei. In precedenti articoli abbiamo raccontato il sistema di accoglienza italiano, con tutte le sue anomalie e contraddizioni. Un coerente sistema di accoglienza, organizzato secondo canoni specifici relativi – in particolare – alla capienza dei centri, semplicemente non esiste. Riformarlo non costerebbe poi così tanto per le casse dello Stato e permetterebbe di farci fare un bel salto in avanti sul piano civile e morale, prima ancora di quello economico e demografico. Di pari passo con la riorganizzazione dei centri di accoglienza va la concessione della cittadinanza ai figli di migranti nati in Italia, il cosiddetto Ius Soli, sbandierato a più riprese ma ancora ben lontano dall’essere realtà.
Il sistema di salvataggio in mare è il nodo più complicato, perché impatta trasversalmente sulla geopolitica mediterranea toccandone aspetti di primario rilievo, come i rapporti diplomatici e commerciali tra i paesi.
Quando venne firmato in Memorandum con la Libia il tutto avvenne nel silenzio quasi assordante di giornali, radio e televisioni. Un patto silenzioso ma destinato a fare molto rumore in futuro. Fu firmato nel febbraio del 2017 dall’allora presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, ora Commissario europeo all’economia, e il primo ministro del governo di riconciliazione libico al-Serraj. Il ministro dell’Interno italiano era Marco Minniti, ora in pianta stabile nell’organigramma di Leonardo. Oggetto del documento erano ufficialmente “la cooperazione nel campo dello sviluppo” e “il contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani e al contrabbando”, nonché “il rafforzamento della sicurezza delle frontiere tra lo Stato della Libia e la Repubblica Italiana”. Il patto, di durata triennale, è stato rinnovato lo scorso febbraio. L’esito di questa collaborazione ha portato a migliaia di rimpatri, intercettazioni, omicidi, reclusioni in campi di detenzione, stupri reiterati nel tempo. Violenze indicibili che non dovrebbero passare in secondo piano.
Accade frequentemente di ascoltare opinioni prive di fondamento che tentano di spiegare come il migrante eritreo stia in realtà tentando di rubarci il lavoro. Altre opinioni ricorrenti sono quelle di coloro che, pur consapevoli dell’azione mistificatoria di esponenti politici e media, si dicono idealmente favorevoli all’accoglienza e all’integrazione dei migranti nel tessuto sociale del Paese, ma allo stesso tempo riconoscono che in Italia siamo già troppi e le risorse scarseggiano; pertanto, con profonda amarezza, sarebbe più giusto spedire grano e vestiti in Namibia e Senegal.
Le parole di Draghi a Dabaiba
La scorsa settimana il nuovo premier italiano si è recato in Libia per incontrare a Tripoli il reggente del nuovo governo libico, Abdul Hamid Dabaiba, e il presidente del Consiglio presidenziale della Libia, Mohammed Menfi. Le dichiarazioni rilasciate dal primo ministro italiano hanno suscitato lo sdegno di tanti cittadini italiani, scioccati dalle parole utilizzate per descrivere l’operato della guardia costiera libica. Facciamo però un passo indietro. Perché la Libia è così importante per l’Italia?
I motivi principali riguardano il fenomeno migratorio e l’energia. Il numero più alto di partenze via mare per l’Italia proviene dalle coste libiche. Inoltre, l’Eni detiene il controllo della maggior parte dei giacimenti petroliferi dello Stato nordafricano. Sul piano geopolitico la situazione in Libia è molto cambiata negli anni recenti perché numerosi Paesi hanno ora interesse in quell’area strategica. Oltre alla Francia, soprattutto Turchia e Russia si sono rese protagoniste di rapporti con il governo libico inviando risorse e contingenti militari. Le dichiarazioni del presidente del Consiglio italiano vanno lette anche alla luce di questa complessa situazione. Ma cos’ha detto Draghi?
“Sul piano dell’immigrazione noi esprimiamo soddisfazione per quello che la Libia fa nei salvataggi e, nello stesso tempo, aiutiamo e assistiamo la Libia”.
È stata quella parola, salvataggi, a suscitare sdegno in chi sa bene che la guardia costiera libica, finanziata dall’Italia, non si occupa di salvataggi. Anzi. Continuando Draghi ha poi aggiunto che: “Il problema non è solo geopolitico, è anche umanitario e in questo senso l’Italia è uno dei pochi Paesi che tiene attivi i corridoi umanitari”; quasi a voler dare un minimo peso anche alla tragedia umanitaria che continua a consumarsi nel Mediterraneo. E pensare che nelle dichiarazioni programmatiche dell’azione di governo il nuovo premier affermava quanto segue:
“Altra sfida sarà il negoziato sul nuovo Patto per le migrazioni e l’asilo, nel quale perseguiremo un deciso rafforzamento dell’equilibrio tra responsabilità dei Paesi di primo ingresso e solidarietà effettiva. Cruciale sarà anche la costruzione di una politica europea dei rimpatri dei non aventi diritto alla protezione internazionale, accanto al pieno rispetto dei diritti dei rifugiati.”
Perché quindi i complimenti alla Libia? Per cortesia diplomatica? Può darsi. Al momento la Libia è un dossier fondamentale per molti Paesi e andare a conoscere il nuovo esecutivo denunciando gli ostruzionismi al salvataggio in mare e le operazioni di rimpatrio non sembra una buona strategia.
Ancora una volta il destino delle vittime della tratta è subordinata a interessi “più grandi”, nazionali, sovranazionali, internazionali.
Le contraddittorie scelte dell’Ue e l’anacronistico regolamento di Dublino, ancora in vigore, rispecchiano i limiti dell’Italia e di altri Paesi membri che in larga parte non sono favorevoli ad una sua revisione. L’Unione preferisce continuare a finanziare la Turchia per evitare che si spalanchino i cancelli delle migrazioni del sud-est. La palese debolezza europea nel dialogo con Ankara, una debolezza che non rispecchia i reali equilibri di forze in gioco, è stata scelta pur di non affrontare il fenomeno migratorio nella sua complessità. I complimenti del presidente del Consiglio italiano sarebbero dovuti essere evitati: perché rischiano di legittimare visioni barbare che considerano gli uomini al pari di numeri; perché l’elogio sfida in modo eccessivo e spavaldo il lavoro di chi ha scelto di impiegare le proprie forze, in ambiti diversi, per evitare che la fuga disperata si tramuti in tragedia che non fa rumore.
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