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Atlantismo formale e crisi dei "corpi solidi"

  • Luigi Sorrentino
  • 4 apr 2020
  • Tempo di lettura: 4 min

Aggiornamento: 21 mar 2021

"Auguriamoci che mentre la Costituzione repubblicana attende ancora il suo compimento, la firma di questo Patto Atlantico non sia il primo colpo di piccone dato per smantellarla"

Con queste fredde - e, oserei dire, sagge - parole, Piero Calamandrei accoglie la firma del Patto Atlantico, avvenuta a Washington il 4 aprile del 1949: sembra comprendere anticipatamente le ambiguità e le sfumate contraddizioni che segneranno la storia di questa istituzione. I dodici Paesi firmatari sanciscono in tal modo la nascita della NATO: il mondo inizia a dividersi, di nuovo. Nucleo fondante del trattato è rappresentato dall'art. 5, il quale prevede che azioni di offesa militare nei confronti di uno dei Paesi firmatari siano da considerarsi offensive e lesive per tutti gli aderenti al patto: un' unione militare quindi, ma anche economica, non dimentichiamo infatti che il 3 aprile del precedente anno Harry Truman firmava il Piano Marshall. La controparte nello scacchiere geopolitico globale giungerà al trattato speculare della versione atlantica nel

1955, anno in cui l'URSS e altri 8 Stati danno vita al Patto di Varsavia.

Il resto, come sapete, è storia.


Ce la sentiamo di dire che la Nato sia stata un successo? Che l'atlantismo lo sia stato? Sicuramente la guerra fredda è stata un frangente storico in cui, nella maggioranza dei casi, ed in relazione alle varie realtà nazionali, vigeva una sorta di gioco a somma zero. In Italia dopo i fatti d'Ungheria del 1956 - tentativo di emancipazione dai diktat di Mosca, incarnato dalla figura del primo ministro Nagy e soppresso dalle truppe del maresciallo Konev - e la "Primavera di Praga" del 1968, nel PCI inizia a maturare l'idea di un distacco dal PCUS, quella di un socialismo diverso, capace di coincidere con i principi della Repubblica - in quanto perno di quest'ultimi - e non di esservi avverso. L'allontanamento dall'URSS sarà portato avanti con efficacia durante la segreteria Berlinguer, anche perché l'Italia non aderiva al Patto di Varsavia e ciò la rendeva sicura da condizionamenti e in grado di perseguire la propria "via al socialismo". In Italia l'ombrello della Nato sembrò più confortante delle rigide attuazioni militari sovietiche, e se persino i comunisti italiani diffidavano di Mosca, la Democrazia Cristiana era il partito pilastro dell'obbligatorietà atlantica, la quale rappresentava una delle poche certezze di un partito egemone ma diviso in correnti che esprimevano diverse interpretazioni della società. Sin dal principio della nostra Repubblica la DC è stata ai vertici del potere, e non è un segreto, più trascurato invece è l'aspetto che riguarda le perpetuazioni di questo potere e tutti i fenomeni e le dinamiche che coinvolge: Su questo ordine di elementi l'ingresso nella NATO è uno dei fattori che insiste maggiormente - avendo cristallizzato il potere resiliente della DC - assieme all'abbandono del fronte comune della Sinistra operato dal PSI di Pietro Nenni nel '57 (evento che ha dato il via alle stagioni del centro-sinistra democratico in Italia). In merito alle stabilità del Centrismo va ricordato che grandi perplessità si riscontrano dalle contrastanti dichiarazioni dei vertici della Dc sulle connessioni tra Gladio e la Nato: G. Andreotti in una lettera di risposta rivolta al presidente della Commissione stragi, Libero Gualtieri, affermò che alcuni documenti della Gladio erano coperti dal vincolo Nato, sancito da accordi ratificati dal Parlamento [1], poi nel dicembre del 1991 Cossiga inviò a Ugo Giudiceandrea, procuratore capo della Repubblica di Roma, un rapporto dei servizi segreti tedeschi in cui si sosteneva che Gladio non avesse connessioni con la Nato, smentendo in tal modo la versione del Governo e di Andreotti [2]. Ci sono ancora oggi molti dubbi in merito, una delle sole certezze che si hanno è che la scelta atlantica dell'Italia è sempre stata fatta apparire necessaria - forse lo era davvero - ma di sicuro ha contribuito a plasmare uno status quo odierno frammentato e interessato da serie crisi di identità politica nazionale internazionale.


Le dinamiche sui confini di appartenenza ai blocchi, come il distaccamento dei comunisti italiani e la "crisi cubana" (fin dalla successione di Castro a Batista), o il golpe cileno di Pinochet - ed il tramonto del socialismo di Salvador Allende - e la già citata Primavera di Praga, innescata dal raggiungimento dei vertici del PCC da parte di Alexander Dubcek, ci riportano al nostro gioco a somma zero, in cui non esistono pareggi. Più volte l'opinione pubblica è stata, nel corso della seconda metà del XX secolo, sul punto di convincersi dell'inevitabilità del III conflitto mondiale, proprio poiché l'equilibrio non era da molti contemplato come una reale possibilità: non lo era a Berlino, che dal 1961 al 1989 è stata separata dalla calce e dai fucili, da mattoni e paure rappresentanti, meglio di ogni altra cosa, le divisioni del mondo intero.


E invece? Nessun conflitto nucleare, solo una tesissima guerra divisionista. Ma non è stato affatto un pareggio.


La contrapposizione - militare e geografica, ideologica, totale - espressa dalle due superpotenze non poteva esaurirsi nell'equilibrio. Il mondo si è occidentalizzato, si è conformato alle dinamiche del consumismo paranoico mercificando il materiale e l'immateriale, ha varcato nuove frontiere della globalizzazione e sperimentato l'iperconnessione e la propulsività telematica, ha conosciuto la genesi di camaleontici e pericolosi esperimenti di antipoltica. Il processo di allontanamento dai valori democratici attualmente in atto - almeno nei Paesi che possono fregiarsi di una struttura partecipativa democratica - travolge come un maremoto istituzioni come la Nato, l'ONU o l'IMF, create secondo schemi e principi ideati in un contesto troppo distante dal nostro, antecedente alla nascita di fenomeni che hanno dilatato enormemente le possibilità umane, nel bene e nel male. Anche l'UE si è rivelata essere uno dei "corpi solidi" che vacillano particolarmente e solo il tempo ci dirà se quanto si sarà fatto in queste ore, in questi giorni, sarà servito alle sorti della nostra Unione, sempre più formale e meno identitaria.


Possiamo a questo punto affermarlo: sì, c'è stato un vincitore, ed è il neoliberismo, lo stesso di cui moltissimi denunciano una crisi esistenziale (che viene però, di volta in volta, posticipata) e di cui si ritiene la pandemia in atto il capitolo conclusivo.

La verità è che sono necessarie azioni per ottenere reazioni, e stravolgere il paradigma economico più resiliente della storia necessità di molto più che buoni propositi.


Per approfondire


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