Tra i pregi della narrazione mitica vi è sicuramente la longevità. Si pensi all’esempio più banale possibile, un mito che tutti conoscono, ovvero quello edipico: nonostante il suo abuso millenario, è ancora oggi riprodotto senza remore - in forme modernizzate, ma non solo - al cinema, in letteratura e a teatro. E lo stesso si potrebbe dire di Medea, Euridice, di Faust. Succede però talvolta che la riproposizione di un mito sposti il proprio raggio d’azione dall’arte alla vita, d’altronde, per citare un grande studioso di mitologia come Kàrol Kerényi: «[…] [il] mito è fondazione di vita; è lo schema atemporale, la pia formula a cui la vita si adegua […]». Può capitare allora che un mito europeo vecchio di cinquecento anni vada a intrecciarsi con la vita di un giovane bluesman afroamericano nato all’inizio del Novecento e che la vita di quest’ultimo, o perlomeno la storia della sua vita, si adegui ad esso. Certo, perché accada questo c’è bisogno che il mito e l’oggetto del mito condividano almeno qualche caratteristica tra loro: non capita tutti i giorni di essere il protagonista di una narrazione mitica. Sì, ma cos’hanno in comune un erudito tedesco di nome Georg Faust, nato verso la fine del quindicesimo secolo, e un certo Robert Johnson, un afroamericano figlio di un bracciante cresciuto nello stato del Mississippi nella prima metà del Novecento? In apparenza poco o nulla, anche perché poco o nulla si sa delle vite di questi due sfuggenti personaggi. E in effetti è proprio questa loro inafferrabilità a costituire un fertile terreno affinché il mito cominci ad aleggiare attorno alle loro figure: dell’alchimista Faust, professore a Erfurt, non è rimasto alcuno scritto e tutte le testimonianze circa la sua biografia sono giunte a noi attraverso i commenti di vari contemporanei imbattutisi in questo bizzarro personaggio, a partire dai quali si può ricostruire l’immagine di un mago giramondo, elusivo e sempre in viaggio; allo stesso modo, il bottino di documentazioni circa Robert Johnson, da molti considerato il più grande bluesman di sempre, è misero: anch’egli vagabondo (o meglio hobo, termine derivato dalla contrazione di hoe-boys, ovvero “braccianti”, i quali fin dalla metà dell’Ottocento erano soliti spostarsi da un luogo all’altro alla ricerca di lavoro), di lui restano due fotografie, quarantadue incisioni che hanno influenzato artisti del calibro di Eric Clapton, Bob Dylan e Mick Jagger e il certificato di morte. Insomma, per entrambi poca documentazione, poche testimonianze scritte, quasi nessuna prova certificata delle loro attività, dei loro spostamenti. A confermare il mistero attorno alla figura del musicista è il suo stesso biografo, Tom Graves: «quella di Robert Johnson resta una delle figure più misteriose e sfuggenti a cui sia mai stata dedicata una biografia. Separare i fatti dalle invenzioni, la leggenda dalla verità, la precisione dall’esagerazione equivale a una condanna di Sisifo, un compito senza fine». Proprio qui sta il punto: se da un lato la documentazione è scarsa, dall’altro storie, notizie e racconti circa le due figure si sprecano. E non è un caso che il mito, prima di essere fissato su carta, nasca come racconto orale. Orali erano i pettegolezzi circa il potere del professore/mago Georg Faust di poter evocare i personaggi della mitologia greca davanti ai suoi studenti, così è una società basata sull’oralità quella afroamericana che popola le rive del fiume Mississippi all’inizio del Novecento e che intesse leggende sul giovane talento con la chitarra di nome Robert Johnson: lo storico Peter Guralnick afferma che «la comunicazione, nel mondo in cui Robert Johnson viveva, era quasi esclusivamente orale. Per quanti contatti si avessero e per quante storie si raccontassero, i primi rimanevano precari e le seconde, pur possedendo una base di verità, erano in un certo senso mitopoietiche, come quelle degli antichi greci». Non sorprende allora che all’interno di una comunità con simili caratteristiche, per cercare di trovare una spiegazione ad avvenimenti altrimenti poco comprensibili, come l’esplosione improvvisa del talento musicale di Robert Johnson, si faccia riferimento a narrazioni di carattere mitologico-leggendario. Scomodando nuovamente Kerényi: «nella mitologia raccontare significa già motivare». Per spiegare il repentino miglioramento con la chitarra di Johnson (testimoniato dal musicista Son House, non importa se ciò sia avvenuto realmente o meno) interviene dunque il mito di Faust. Il mito è noto: si cede la propria anima al diavolo in cambio di misteriosi poteri. Va specificato però come il mito faustiano subisca nel corso dei secoli delle evoluzioni e l’esempio di Johnson è lampante della tendenza del mito di svilupparsi a partire da una concezione universale dello scambio col diavolo, che rappresenti una ricerca comune all’umanità, verso una invece individuale ed esclusiva. Lo scambio alla base del mito faustiano ai suoi albori è inteso, infatti, a una ricerca di carattere intellettuale, si tratta del cosiddetto «dramma della conoscenza», ovvero come spiega Luca Zenobi: «[del]l’insoddisfazione per un sapere vecchio, inefficace e inadatto a soddisfare le istanze conoscitive dell’uomo, non più capace di concepire e spiegare il mondo con i suoi fenomeni esclusivamente sulla base della verità religiosa». Col passare degli anni, e il Faust di Goethe è il testo più rappresentativo di questa tendenza, le finalità del patto col diavolo mutano: al dramma della conoscenza si affianca una richiesta legata al raggiungimento di un piacere puro, evanescente ed effimero, che poco ha a che vedere col godimento materiale. Con l’avvento del Novecento invece il dramma della conoscenza è sostituito dall’aspirazione alla genialità artistica: dal patto si vuole ottenere talento artistico, sia esso musicale, letterario o pittorico. In questo filone del mito faustiano s’inserisce il mito di Robert Johnson, ma anche il romanzo di Thomas Mann del 1947 Doctor Faustus, che narra della vita e della parabola artistica del compositore Adrian Leverkühn attraverso i ricordi dell’amico Serenus Zeitblom. Il mito però, e da qui trae linfa la sua longevità, si evolve non solo dal punto di vista causale, ma anche da quello strutturale: e dunque il patto col diavolo, un tempo suggellato dalla firma col sangue, nelle riproposizioni moderne avviene per altre vie, strimpellando la chitarra a mezzanotte a un incrocio nel caso di Robert Johnson, consumando un rapporto con la prostituta Esmeralda in quello di Adrian Leverkühn. Ma di analogie e differenze formali tra opere letterarie come quelle di Goethe e Mann e il mito attorno alla figura di Johnson ve ne sono molte altre (dall’elemento amoroso passando per il ruolo del veleno all’interno dell’intreccio narrativo finendo con la morte e l’auspicio della salvezza dell’anima), purtroppo però questa non è la sede per analizzarle. Per ultimo va sottolineato invece come ad alimentare il mito del bluesman siano state le sue stesse canzoni, piene di riferimenti, subliminali o meno, al diavolo e al patto stipulato all’incrocio o crocicchio (il cosiddetto crossroad), dalle cui letture superficiali si è arricchito l’immaginario collettivo intorno alla sua misteriosa figura, ancora oggi difficile da inquadrare con chiarezza:
Early this morning, ooh When you knocked upon my door And I said "hello Satan I believe it's time to go" Me and the Devil Was walkin' side-by-side
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