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Marzia Samini

La banalità del male: la mostruosità dell’ordine


“Le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso”

Adolf Eichmann durante il processo tenutosi in Israele



Con spietata lucidità la filosofa, giornalista e storica Hannah Arendt ci restituisce una fotografia commentata di ciò che è stato il processo ad Eichmann a Gerusalemme. La situazione è nota: siamo negli anni ’60, circa quindici anni dopo gli orrori dell’Olocausto, una ferita che l’umanità non sarà più in grado di risanare. Israele rapisce dall’Argentina quello che, secondo diverse testimonianze di nazisti caduti ricavate dal processo di Norimberga, sarebbe stato l’ideatore, l’architetto, della cosiddetta ‘soluzione finale’: Adolf Eichmann. Portato a Gerusalemme ha inizio uno dei processi più lunghi e importanti della storia. Non solo perché tutto il mondo è ancora scosso e sanguinante per le ferite che la Germania nazista ha inciso nella memoria collettiva ma anche perché questo processo lascia un insegnamento importante: tutti hanno diritto ad un processo equo, con un’accusa, un difensore e dei giudici, tutti, persino un nazista a Gerusalemme. Un processo dal destino segnato ma che non rinuncia all’applicazione della legge, all’ascolto della parola e soprattutto mai si lascia andare alla brutale vendetta, se pur giustificata agli occhi di molti.


Ma la cronaca di Hannah Arendt ci mostra un altro lato della medaglia, senza mai cadere nella soggettività del giudizio (la Arendt è di religione ebraica), ci spiazza con obiettività. Con la certezza di una prosa limpida e sempre posata rivela l’assurdità di un impianto accusatorio che sembra non aver capito l’obiettivo del processo: accusare Eichmann oltre ogni ragionevole dubbio. Invece viene inscenata la fiera del dolore portando a testimoniare 56 testimoni che raccontano sofferenze e atrocità subite ma che mai riconoscono la presenza di Eichmann nei campi di concentramento. Ancora più scioccante è la testimonianza dell'imputato, così ordinario da risultare noioso, con la sua totale indifferenza travestita da stupidità, che lascia sulla schiena un brivido. La giustificazione è quella già usata da tanti altri nazisti finiti a processo: “Ho soltanto eseguito gli ordini”. L’unica differenza che sembra instaurarsi tra Eichmann e gli altri nazisti processati, al di là del grado, è che quest’ultimo sembrava crederci veramente. Non uno scarico di responsabilità, tutt’altro, una piena presa di coscienza. Ecco, per Eichmann il suo lavoro era condurre milioni di ebrei alla morte, e lui lo faceva non con zelo ma con una peculiare forma di moralità. Ma ciò che realmente ci fa storcere il naso in questa cronaca così dettagliata è che attraverso tutte le testimonianze, dell’imputato, dei nazisti e delle prove scritte (che fortunatamente non sono andate distrutte), emerge come Eichmann non fosse l’uomo di potere che lui e i suoi colleghi hanno voluto far credere. Infatti, pagina dopo pagina ci rendiamo sempre più conto che all’interno della labirintica gerarchia nazista era poco più di un impiegato, un impiegato della morte. Insomma, quello che ci viene mostrato è ciò che mai ci saremmo aspettati: la banalità del male.



Hannah Arendt



Quello che troppo spesso dimentichiamo, o troppo poco ci viene insegnato, è la resistenza che è stata opposta a questa mostruosità; come nel caso della Danimarca, che da principio si rifiutò di collaborare con i nazisti difendendo il diritto alla vita di tutti i suoi cittadini, o come quello della Svezia che offrì, per tutta la guerra, asilo e cittadinanza agli ebrei. Di questo non dobbiamo dimenticarci, che il male lo si può combattere con il bene, che è sempre possibile dire ‘no’, che alla banalità del male possiamo e dobbiamo sempre opporre l’umanità del bene. E questo lo dobbiamo portare sempre con noi, come l’acqua ossigenata che ogni volta brucia ma disinfetta la ferita. Perché se il male non viene fermato dilaga, perché se muoiono milioni di ebrei muoiono milioni di uomini e se il male fa ‘solo il suo lavoro’ a noi tocca fare il nostro: resistere, sempre.



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