Era il lontano 1964 quando, grazie a Umberto Eco, una nuova espressione di uso corrente si aggiunse al già ricco repertorio della lingua italiana. Stiamo parlando di “Apocalittici e integrati”, in origine titolo di una raccolta di saggi di carattere sociologico sulla cultura e sul suo rapporto con la comunicazione di massa. Nell’introduzione, Eco distingueva tra due tipi di pensatori: gli “integrati”, ottimisti sul futuro e sulle possibilità di questo rapporto, e gli “apocalittici”, che condannavano invece con aristocratico disprezzo la decadenza e la barbarie della cultura e della civiltà a venire.
A più di sessant’anni di distanza, il panorama dipinto da Eco non è affatto cambiato. Il mondo culturale pare ancora dividersi tra catastrofisti ed ottimisti. Già prima dell’attuale pandemia, gli aficionados delle librerie si erano ormai abituati a titoli tragici e ad annunci funesti: a partire dal francese Decadenza (Décadence) di Onfray, del 2017, passando per La notte del mondo del nostrano Fusaro, del 2019, gli apocalittici parevano avere gioco facile nel lanciar strali al mondo moderno.
Tale filone, in effetti, e questo non lo si può negare, è parte integrante della letteratura occidentale tout court. Una storia minuziosa della decadenza (o presunta tale) dell’Occidente dovrebbe partire da lontano, dalle sue radici greche-romane. Si potrebbe iniziare con Platone e con Socrate, testimoni e accusatori della decadenza ateniese, oppure si potrebbe fare un balzo avanti e, da parte latina, chiamare alla sbarra Cicerone e il suo noto: “O tempora, o mores!”. Sempre la latinità ci ha poi lasciato quella serie di tremendi satirici: Orazio, Marziale, Giovenale, che tratteggiarono un Impero Romano in perenne decadenza. Anche l’arrivo del cristianesimo, con la sua ansia escatologica, non cambiò troppo le cose. Basti ricordare Cipriano, vescovo di Cartagine, che nel III secolo riassunse perfettamente l’angoscia di un’epoca scrivendo epistole “in mezzo alle stesse rovine di un mondo che precipita verso la fine”.
L’incarnazione più moderna di questo genere ha però caratteristiche diverse. Anzitutto, è più recente. Affonda le sue radici nell’Ottocento e denuncia la decadenza e il crollo imminente di una specifica civiltà, quella europea o giudaico-cristiana (come preferiscono chiamarla alcuni), a causa di alcune patologie particolari. Solitamente queste sono: il secolarismo, l’industrializzazione (coi suoi sconvolgimenti sociali e tecnologici), la cultura di massa e le istituzioni democratiche. Anche i sintomi di questi mali, secondo i critici, formano una lista alquanto variegata: l’imbarbarimento della cultura, la perdita dei valori, un eccesso di razionalismo (da una parte), il risorgere del pensiero superstizioso (dall’altra) e così via. A ben vedere, pur se nascosti sotto una patina di contemporaneità, sono ancora questi i principali sintomi della decadenza europea secondo i nostri moderni “apocalittici”. Anche i temi paiono tornare in maniera quasi ciclica: al timore per l’islamizzazione dell’Europa, espresso da Houllebecq nel 2015 col suo Sottomissione, si può accostare il timore analogo espresso più di un secolo prima, nel 1914, da Chesterton ne L’osteria volante.
A dar forma per la prima volta a queste ansie in maniera sistematica – o sistemica – non fu però, come si potrebbe pensare, Oswald Spengler con il suo monumentale Il tramonto dell’Occidente, pubblicato tra il 1918 e il 1923. Fu, al contrario, un pensatore di origine ungherese di fine Ottocento, Max Nordau che nel 1892 mise alla berlina la civiltà fin de siècle (quella che molti considerano l’epoca d’oro della cultura europea) dedicandole uno spietato saggio intitolato Degenerazione (Entartung in tedesco). Opera di culto dell’epoca, lo scritto era una vera e propria rassegna degli errori/orrori di fine secolo: una mostra di anomalie che non risparmiava nessuna delle grandi personalità dell’epoca. A partire dai Preraffaeliti, da Wagner e da Tolstoj, condannati come parodie del misticismo, passando per gli scrittori egomaniacali (categoria che includeva sia Nietzsche che Ibsen) e concludendo con il gusto morboso del realismo (Zola), il saggio non lesinava critiche a nessuno dei grandi movimenti culturali dell’epoca. A esser sinceri, uno in particolare si salvava: il positivismo, nella cui scia si voleva inserire l’opera. Non è un caso che l’opera si aprisse con una sezione dedicata alla sintomatologia e si chiudesse con prognosi e terapia. E, ancora, non è un caso che sfoggiasse, in apertura, una dedica a uno dei principali alfieri del positivismo dell’epoca: Cesare Lombroso, che nel 1878 aveva pubblicato la prima versione del suo noto L’uomo delinquente.
A tratteggiare nuovamente il futuro con tinte fosche, tre anni dopo Nordau, sarebbe poi stato un altro fiero rappresentante del positivismo: H. G. Wells, col suo romanzo La Macchina del tempo. Nella finzione dello scrittore inglese, gli unici abitanti del pianeta, in un futuro remoto, sarebbero stati soltanto i resti di un’umanità mutata e degenerata e – ancora più in là – soltanto licheni e tozzi granchi giganti, vaganti sotto un Sole morente. Un titano della scienza moderna proiettava la sua ombra su questo lugubre panorama: Charles Darwin, con il suo L’origine della specie del 1859. La sua evoluzione, che alcuni pensatori come Herbert Spencer leggevano in senso correttivo, progressista, era vista da strati crescenti della popolazione come un vero e proprio “scadimento” della civiltà. Il trionfo di una specie, per molti pensatori, coincideva con l’inizio del suo declino, con la sua discesa verso l’estinzione. La parola d’ordine di questo filone era “degenerazione”, quasi una versione biologica del peccato originale, un male che poteva essere contrastato solo attraverso l’utilizzo della scienza. È proprio con figure come Francis Galton e Karl Pearson, pensatori positivisti, progressisti, nonché padri fondatori della statistica, convinti di questa propensione genetica al peggio, che farà la sua comparsa nel panorama europeo l’eugenetica, ma questa è un’altra storia.
La presente rassegna può però spingerci, infine, a porci una domanda: che cosa riflette questo spirito “apocalittico”? Possiamo riprendere la tesi di Eco e vedere in questi pensatori solo un’espressione del mercato, parlando addirittura di “apocalittici integrati”? Oppure questi pensatori possono esser visti come l’espressione di un disagio genuino? Guardando alcuni dei nomi e dei titoli appena citati è difficile non propendere per questa seconda soluzione. L’opera di Spengler, nel bene e nel male, rifletteva involontariamente la fragilità e l’instabilità della repubblica di Weimar. Le fosche previsioni di Wells esprimevano le ansie di una middle class che, anno dopo anno, vedeva nuove forze sociali crescere e prender forza. Mentre il languore decadente di un Verlaine, coi suoi “bianchi barbari”, ben faceva presentire la fine del secondo impero in Francia.
Certo, per quanto riguarda il contemporaneo, è difficile trovare un unico imputato, o riuscire a comprendere in presa diretta quali movimenti stiano davvero scuotendo le nostre società. Negli ultimi anni l’elenco si è allungato a dismisura: internet, l’epidemia, i nuovi movimenti ecologisti, antirazzisti e femministi… L’unico punto saldo a cui possiamo aggrapparci è il seguente: la lettura della decadenza, o della degenerazione, è sempre il sintomo (lei sì!) di un cambiamento: di una società che fa i conti con i mutamenti, spesso drastici, a cui va incontro. Possiamo solo augurarci che questa nostra “decadenza”, come quella dell’impero bizantino, duri almeno per un buon millennio
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