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Luigi Sorrentino

Così non va. Italia tra gli ultimi Paesi in Europa per rapporto tra lavoratori e pensionati

Secondo le previsioni OCSE nel 2050 il rapporto occupati/pensionati potrebbe raggiungere l’1,1%. Significa che tra 30 anni il sistema pensionistico italiano sarebbe vicino al collasso. Una prospettiva preoccupante anche alla luce dei dati forniti da Eurostat (relativi al 2018) che fanno emergere come l’Italia si trovi agli ultimi posti in Europa per quanto riguarda il suddetto rapporto.


I dati Eurostat

Da precisare che il numero di occupati sulla quale si calcola il tasso di occupazione riguarda le persone con più di 15 anni, mentre i dati forniti dall’ente statistico europeo prendono in considerazione soltanto la popolazione maggiorenne. La rilevazione Eurostat vede l’Irlanda al primo posto di questa speciale classifica, seguita da Regno Unito, Estonia, Malta, Cipro e Danimarca. Dublino presenta una percentuale di maggiorenni occupati pari al 58,6% e soltanto il 14,3% di pensionati. Londra e Tallinn fanno registrare addirittura il 62,1% di occupati e, rispettivamente, il 22,4% e il 22,7% di pensionati. L’Italia è molto indietro avendo il 46,4% di occupati maggiorenni e il 22,2% di persone che beneficiano di trattamento pensionistico. Ma non sono gli unici dati allarmanti.


Era necessaria Quota 100?

Le pensioni vigenti al 1° gennaio 2018 erano 17.886.623, di cui 13.979.136 di natura previdenziale (invalidità, vecchiaia e pensioni ai superstiti) e le restanti 3.907.487 di natura assistenziale (dunque invalidità civili, indennità di accompagnamento, pensioni e assegni sociali). Questi dati destavano preoccupazione già due anni fa ma nonostante ciò è stato deciso di implementare una misura costosa e temporanea come Quota 100 la quale ha avuto l’esito di privilegiare alcune categorie di lavoratori e specifiche classi d’età (62 anni di età anagrafica e 38 di contributi) facendo ricadere i costi sulle generazioni future. La fase sperimentale prevista dalla l. 4/2019 scadrà nel 2021 e sembra ormai certo la mancata proroga. Ma quanto è costata?

Nel 2019 circa 2,6 miliardi, mentre nel 2020 la spesa è stata di 5,2 miliardi. Per il 2021 il governo ha stimato un risparmio di oltre un miliardo sull'iniziale stima di 8,3 miliardi ma l'Ufficio parlamentare di Bilancio (UpB) non è ottimista quanto l'esecutivo. Anche in merito alla Riforma Fornero si è spesso sottolineato l'aggravio sui giovani e a dirlo con maggior vigore sono stati proprio i partiti che hanno fortemente voluto Quota 100. Però a differenza di quest’ultima misura la l. 214/2012 è stata varata in un momento incredibilmente delicato. Non che due anni fa fossimo esenti da problemi di natura finanziaria ma dopo aver ricevuto nell’agosto del 2011 la famosa lettera della BCE in cui si metteva in guardia l’Italia per aver intrapreso una strada senza uscita sul fronte della sicurezza sociale e, più in generale, nell’ambito delle politiche del lavoro non era possibile esimersi dall’affrontare il problema in maniera drastica. La riforma ha innalzato l’età pensionabile e inasprito i requisiti di accesso alle pensioni di vecchiaia e anzianità e stabilendo nuovi criteri anche per i contributivi puri e per quanto lo si voglia negare quelle scelte sono state l’equivalente di una grande boccata d’ossigeno per le casse dello Stato. Certo, a pagare saranno le nuove generazioni (anch’io vi rientro a pieno titolo) ma quel Governo tecnico si è dovuto assumere una responsabilità politica che altri hanno evitato per decenni.


Fare i conti col passato

Le ragioni dei nostri problemi economici in merito all’enorme spesa pensionistica vanno ricercati nella Prima Repubblica. Le malsane scelte di prolungare oltremodo la vigenza del sistema di calcolo retributivo e di concedere il trattamento pensionistico ad alcune categorie dopo aver maturato appena 20 anni di anzianità contributiva (il fenomeno delle c.d. "baby pensioni") hanno spinto il sistema sull’orlo della crisi finanziaria. In seguito con le riforme degli anni Novanta (Amato prima, Dini poi) è stata gradualmente invertita la tendenza. Del resto proprio perché era necessario salvaguardare i diritti acquisiti quelle riforme andavano fatte prima, ma a mancare era la volontà politica dei partiti di governo. Non a caso sia il d.lgs. 503/1992 che la l. 335/1995 sono stati provvedimenti operati da governi tecnici (in piena crisi istituzionale). Ad aggravare il circolo vizioso descritto hanno inoltre contribuito fattori strutturali. L’altalenante percorso del mondo del lavoro italiano è uno di questi. È opportuno ricordare che il nostro sistema pensionistico è basato sul criterio della ripartizione (l’opposto della capitalizzazione). Vuol dire che gli occupati di oggi, attraverso le detrazioni contributive, finanziano gli attuali percettori di trattamento pensionistico. Dunque si comprende facilmente che una riduzione costante del numero di occupati comporta un serio problema. Gli istituti di previdenza potrebbero dover ricorrere a trasferimenti del Tesoro per finanziare la spesa pensionistica. Ma non è solo il numero degli occupati a contare. Rilevanza fondamentale è rivestita dalla qualità dell’occupazione.

Le basse percentuali di occupazione femminile e l’incremento di forme precarie di contratto come part-time (che spesso mascherano un lavoro full-time), stage non retribuiti, contratti di apprendistato e altre forme contrattuali legate ad agenzie di somministrazione di manodopera non miglioreranno la qualità dell’occupazione in Italia, anzi, contribuiscono ad aggravarla.


La piramide delle età

Altri fattori strutturali che alimentano il circolo vizioso descritto sono di natura demografica e riguardano l’incremento della speranza di vita (in Italia gli over 70 sono circa 10 milioni) e il calo delle nascite. La demografia mette a disposizione un importante strumento di immediato impatto visivo al fine di illustrare efficacemente lo “stato di salute” di una popolazione: la piramide delle età. Si tratta di una rappresentazione grafica composta da due istogrammi (uno per il genere femminile, uno per quello maschile) disposti specularmente. L’asse verticale evidenzia le classi di età mentre quello orizzontale il numero della popolazione presa in esame. Dalla forma della piramide si evince la storia demografica di una popolazione di oltre un secolo (se esistono individui ultracentenari) e l’andamento verso cui essa sta tendendo. Una forma piramidale indica una popolazione in crescita che non ha problemi di turn-over generazionale e può assicurare un ricambio positivo tra le entrate e le uscite degli individui in età lavorativa. Una forma approssimativamente rettangolare indica una crescita nulla e segnala che coloro che entrano in età lavorativa riescono appena a bilanciare quelli che ne escono. Infine una forma simile ad un trapezio rovesciato indica un decremento della popolazione complessiva e di quella in età lavorativa. Insomma un serio campanello d’allarme.


Di seguito un confronto tra la situazione italiana nel 1950 e nel 2019



Soluzioni per cambiare rotta

Per invertire la tendenza e scongiurare il default del sistema previdenziale esistono delle soluzioni, anche se le classi politiche succedutesi alla guida del Paese hanno dimostrato di non conoscerle tutte o di non averle adeguatamente considerate. Citare soltanto le principali può aiutare a semplificare questa spinosa materia:


1. Partecipazione femminile al lavoro: cercare di incrementare l’occupazione femminile, anche attraverso sgravi contributivi e agevolazioni fiscali di varia natura, deve essere una priorità assiema alla parificazione degli stipendi. Il genere non può essere motivo di discriminazione salariale.


2. Flussi migratori di lavoratori in entrata: nel 2017 gli stranieri hanno pagato il 4,3% dell’Irpef ovvero 7,9 miliardi. Se l’Italia riuscisse a predisporre una seria strategia di integrazione socio-lavorativa la cifra indicata lieviterebbe di diversi miliardi euro, soprattutto se si considera che molti stranieri lavorano già nel nostro Paese ma contribuiscono, loro malgrado, ad incrementare l’economia sommersa e questo accede innanzitutto perché manca la volontà politica di intervenire sulla regolarizzazione di coloro che sono invisibili.


3. Incremento del limite di età pensionabile: una scelta che come si è accennato è stata già intrapresa in un momento difficile e che di certo non si vorrebbe replicare anche se ormai l’età del pensionamento avanza di pari passo con la crescita della speranza di vita in virtù della l. 122/2010. Tuttavia proprio per evitare di dover prendere nuovamente decisioni drastiche sarebbe necessario evitare riforme pensionistiche populiste, proposte con lo scopo di accaparrarsi simpatie generazionali sulla base di calcoli elettorali.


Considerando che nel 2020 la spesa pensionistica italiana ha raggiunto il 17% del PIL (mai così alta) è davvero arrivato il momento di iniziare ad insistere sui primi due punti di questa breve lista di soluzioni possibili inserendole all’interno di un più ampio progetto di riforma del mondo del lavoro e del sistema fiscale.




Per approfondire:












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