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Luigi Sorrentino

Mercato del lavoro. Si può cambiare rotta?

L'emersione di nuovi interrogativi e nuove esigenze, interpreti di una cornice diversa, ha innescato il declino dell'epoca delle rivendicazioni operaie, del sindacalismo attivo, dei grandi partiti di massa e dello "Stato Sociale". Il tramonto di una stagione lunga 50 anni ha ceduto il passo ad una rinnovata fase liberista. Quali sono state le conseguenze sul mercato del lavoro?


I nuovi imperativi

Gli imperativi di questa nuova era globale sono noti da oltre tre decenni. Anno dopo anno gli ingranaggi del motore economico mondiale necessitano di maggiori dosi di flessibilizzazione, intesa in senso estensivo, cioè riconducibile ad una varietà di ambiti: dalla flessibilità occupazionale in uscita e in entrata alla flessibilizzazione burocratica che si traduce nella richiesta di snellire le procedure e le prassi obbligatorie. La contro-rivoluzione liberale – intenta a smantellare quanto creato dallo Stato Sociale – ha avviato un processo che trascende le varie discipline e le diverse parti della realtà sociale globale. Un processo che ha sì cambiato il mondo, ma senza ingenerare lo sperato “sviluppo” tanto decantato, o perlomeno privando una parte di individui dei benefici derivanti da esso.

Ma si può definire sviluppo l’ottenimento di risultati utili che non vengono condivisi con tutti gli altri? Secondo coloro che antepongono il funzionamento della macchina alle condizioni precarie di tanti sconosciuti, che scontano l’esser nati in un Paese di “serie B”, trattasi di pieno sviluppo. L’Italia a quale categoria di Paesi appartiene? Forse un tempo non ci sarebbero stati troppi dubbi sulla risposta, ma oggi è più difficile fugarli.


Difficoltà di qualificazione del rapporto di lavoro in un ordinamento caotico

Il mercato del lavoro interno è stato, al pari di altri Paesi, esposto alle conseguenze del cambio di paradigma. Di certo tra i fattori che maggiormente hanno inciso sull’evoluzione del diritto del lavoro va primariamente annoverata la nascita di nuovi mestieri e figure professionali. La crescente esigenza di professionalità specifiche ha innovato il mondo del lavoro ma allo stesso tempo (con riferimento al caso italiano) lo ha posto in seria difficoltà. La genesi di qualcosa è sempre riconducibile ad un contesto dinamico, quali sono certamente la ricerca e l’innovazione; proprio in ragione di ciò non è stato semplice, né per la giurisprudenza, né per il legislatore, riuscire a stare al passo con la proliferazione di nuove professioni che necessitavano di attenta analisi al fine della qualificazione del rapporto di lavoro. Nell’inquadramento e nella qualificazione sono state rinvenute le principali difficoltà poiché questa esigenza si scontrava con l’inedita natura della nuova professione da qualificare. Non sempre è ovvio ricondurre un rapporto di lavoro nell’ambito del lavoro subordinato o autonomo e si capisce che le differenze sono notevoli; esse vanno dal minor costo previdenziale (come accadeva per i co.co.co. quando l’aliquota contributiva corrispondente alla natura para-subordinata, art. 409 c.p.c., era del 10% a fronte del 33% dell’aliquota per il lavoratore subordinato) alle minori tutele (sempre i collaboratori coordinati e continuativi fino alla legge 335/1995, conosciuta anche come “legge Dini” la quale introdusse la gestione separata, non avevano un istituto previdenziale di riferimento). Ai numerosi problemi relativi alla qualificazione del rapporto di lavoro hanno tentato di porre rimedio, pur finendo con l’ottenere un risultato pressoché contrario, numerosi interventi del legislatore susseguitisi negli ultimi 25 anni, tutti assimilabili in quanto a frammentarietà e ambiguità di contenuti; si tratta di leggi che hanno amplificato grossolanamente la flessibilità e la precarietà nel mercato del lavoro italiano. Nel lungo elenco un posto di rilievo dovrebbe essere assunto dalla l. 196/1997 ("Pacchetto Treu"), dalla legge “Biagi” (n° 276/2003), dalla legge 92/2012 e infine dagli otto decreti attuativi della delega contenuta nel Jobs Act. È chiaro infatti che tanto la somministrazione di manodopera (o lavoro interinale), o la creazione delle co.co.pro. (collaborazioni a progetto) nel 1997, poi abolite nel 2015, quanto la rinnovata derubricazione dell’art. 18 della legge 300/1970 ad opera della riforma Monti/Fornero (giuslavoristica) e del D.Lgs. 23/2015 non hanno ingenerato gli effetti sperati. In particolare l’incentivazione delle assunzioni per fronteggiare la disoccupazione. Il risultato ottenuto è stato quasi esclusivamente quello di garantire alle imprese la possibilità di riacquisire parte della forza contrattuale (di base preponderante in virtù della già citata fisiologica natura del rapporto di lavoro) e di poter disporre di rinnovate facoltà a cui è soggetto il lavoratore (ogni riferimento all’ampliamento dello Ius Variandi è puramente causale). Rinnovare le politiche del mercato del lavoro e la disciplina del rapporto di lavoro richiede di invertire il senso di marcia intrapreso da recenti e risalenti legislazioni, espressioni compiacenti di una logica contradditoria ed instabile in materia di diritto del lavoro, nato per tutelare il contraente debole e ristabilire la parità sostanziale ma sempre più frequentemente conformato a nuove esigenze produttive. Dalla Costituzione ad oggi sono stati fatti numerosi passi in avanti ma la brusca interruzione dell’ascesa garantista ha comportato un mutamento contestuale che ai citati legislatori è parso incontrovertibile, inconfutabile, inoppugnabile alla stregua di un dogma.


Cambiare rotta. Si può?

«Fu un momento eccezionale, forse l'unico nella storia del diritto in Italia: era la prima volta che i giuristi non si limitavano a svolgere il loro ufficio di "segretari del Principe", da tecnici al servizio dell'istituzione, ma riuscivano ad operare come autentici specialisti della razionalizzazione sociale, elaborando una proposta politica del diritto»

Con queste parole si espresse Gino Giugni in merito alla promulgazione dello Statuto dei Lavoratori. Si percepisce in queste parole l'entusiasmo derivante dalla consapevolezza di un passo fondamentale che si era compiuto per la prima volta. Poi le cose sono cambiate. L'emersione di nuovi interrogativi e nuove esigenze, interpreti di una cornice diversa, ha innescato il declino dell'epoca delle rivendicazioni operaie, del sindacalismo attivo, dei grandi partiti di massa. Il tramonto di una stagione lunga 50 anni ha ceduto il passo ad una rinnovata fase liberista; questo nuovo liberismo può avvalersi di strumenti innovativi e ciò ha interessato anche la contrattazione collettiva, intesa come composizione del conflitto fisiologico attraverso la negoziazione tra le parti sociali. La Costituzione, e in buona parte anche la legge 300/1970 assieme a tante altre leggi in materia, hanno delimitato l'area di azione della contrattazione, stabilendo regole precise, sagge e resistenti al passare degli anni. Modificarle per renderle coerenti con il susseguirsi dei contesti storici - o, se preferite, frames - è il preciso dovere del legislatore; ma tale dovere va espletato avendo sempre ben presenti le conquiste del passato.


Guardarsi intorno per capire

La globalizzazione ci ha donato anche dei benefici non trascurabili. La possibilità di poter trarre spunto, di attingere dalle soluzioni già implementate in altri contesti dovrebbe spingerci, ove possibile, all’emulazione. La storia stessa inoltre insegna che nei momenti di crisi economica una soluzione preferibile consiste nell'investire nelle opere pubbliche. Il fine è utilizzare capitale per un servizio collettivo ma al contempo permette di innescare occupazione. L'ampliamento della platea degli occupati si traduce nel tempo in tasse e aumento dei consumi. Analogamente il fenomeno migratorio, che altro non è che la conseguenza del divampare di incendi - da altri appiccati - in determinate aree del mondo, rappresenta una grandissima risorsa. Tuttavia si stenta ad accorgersene, poiché non si ha percezione dell’invecchiamento della popolazione o della diminuzione degli occupati a tempo indeterminato, e non ci si chiede chi pagherà le pensioni nell’immediato futuro. Oltre al dovere morale di creare meccanismi di integrazione ovunque nel mondo, i benefici economici che deriverebbero dalla regolarizzazione dei flussi migratori e dall’incentivazione dell’integrazione lavorativa, sanitaria, scolastica, sarebbero un antidoto per le particolari carenze del mercato del lavoro italiano e per la società ampiamente intesa. Soluzioni giuste generano un circolo virtuoso; un’economia che si rinnova e reinveste in settori strategici tenendo ben presente le conseguenze di tali politiche sul tessuto socio-economico. Dimostrare che cambiare rotta è possibile è un compito che spetta ad una struttura politica ideologicamente solida, capace di risvegliare e al tempo stesso tradurre in proposte di legge la voce di milioni di cittadini e lavoratori. Ma per far ciò la politica deve scendere dal piedistallo che la colloca in un universo autoreferenziale, sordo alla voce delle masse popolari (perché è di questo che si tratta, anche se il termine è caduto in rovina). Allo stesso tempo questa configurazione politica deve essere in grado di razionalizzare, di operare una sintesi tra le tesi proposte al fine di produrre una soluzione condivisa, e ciò richiede una forte identità. Completamente “altro” rispetto al tragicomico teatrino offerto dai partiti protagonisti negli ultimi decenni.

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