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Il lento declino del partito

  • Gian Marco Renzetti
  • 20 apr 2020
  • Tempo di lettura: 4 min

Aggiornamento: 21 mar 2021

"Il primato nel comandare", così si definiva il concetto di egemonia nell’antichità. Azioni che richiedevano un consenso erano legittimate dal possesso di questa caratteristica, requisito necessario perché qualsiasi forma di Stato potesse definirsi tale.


L’egemonia è potere di attuazione, incontrastabile ed inconfutabile da chiunque, combinazione di coercizione e consenso. Di questo requisito il potere politico, almeno nelle realtà liberali, se ne è appropriato, creando legittimità attraverso il voto e riconoscendo ad una particolare figura un particolare tipo di potere. In questo scenario l'egemonia è uno strumento che fornisce conformità a norme riconosciute da più attori politici. Ma se egemonia significa appartenenza ad una bandiera, identificazione con un potere sovrano statale, l’internazionalità e il mercato sono i suoi più scaltri antagonisti.

Il concetto di “egemonia culturale” è stato coniato da Antonio Gramsci per cercare di fornire una motivazione al fatto che il pensiero marxiano (quindi proprio di Karl Marx) non fosse stato in grado di permeare alcune ideologie politiche ed economiche alle quali era rivolto.

Per spiegare quella che può essere definita come “ritrosia intellettuale” di alcune realtà, Gramsci teorizzò tale concetto secondo cui la cultura “dominante” tende a soggiogare la spinta propulsiva di altri modelli culturali in contrasto con quello principale. Per fare un paragone scientifico, la “sopravvivenza del più forte”, teoria darwiniana della selezione naturale, è applicabile in un contesto culturale in cui l’ideologia di background ha attecchito in profondità nella coscienza individuale, tanto da impedire la contaminazione di ideologie esterne che non riescono ad adattarsi e ad influenzare il modo di pensare di una determinata società.

Da anni, indicativamente per tutto il 900’, con “egemonia occidentale” si faceva riferimento ai valori fondanti delle democrazie nord-atlantiche, allargando il concetto di egemonia da “Stato” a “civiltà”. I valori tradizionali di uno stato sono diventati i valori della civiltà occidentale, il potere è lentamente scivolato dalle mani degli esecutivi per andare a rafforzare organismi internazionali e sovranazionali (come Unione Europea e Nato) che hanno al tempo stesso allargato e indebolito la sfera d’azione del potere egemonico che ad un tratto si è reso conto di non potersi adattare ovunque. Infatti, se da un lato il modello occidentale ha plasmato realtà e territori sempre più vasti, dall’altro il vigore con cui viene legittimato da questi stessi paesi perde progressivamente d’efficacia. Tornando a Darwin, il più forte sopravvive solo fino a che non diventa così grande da mangiarsi da solo.


Con quali caratteristiche si viene a manifestare questo declino egemonico?

Innanzitutto partendo dal ruolo del mercato, a cui la sfera d’azione politica sta continuando a delegare compiti che svuotano il ruolo del governo. E l’intervento di quest’ultimo giunge solo quando veramente necessario. Ma in concreto la deregolamentazione sta modificando i rapporti con cui l’egemonia del potere politico si manifesta. Quindi i rapporti stessi con cui il cittadino si offre di essere "comandato". Per legittimare il potere esercitato (quello legale – razionale, il potere decisionale di chi governa) occorre saperlo comunicare, occorre rendere inequivocabile che quel potere concesso dal popolo sia effettivamente utilizzato per rafforzare la propria nazione o per migliorare lo stile di vita dei cittadini. Ma se questo compito viene sempre più delegato ai sopracitati organismi internazionali e al mercato deregolamentato, a che cosa servono i partiti, trampolino di lancio del potere politico?


“Reinventarsi, innovare, cambiare identità”: sono solo alcuni degli slogan più sentiti nell’ultimo decennio. Eppure nessun vecchio partito è stato premiato, in termini elettorali, da questa scelta. Al contrario, a raggiungere le vette più alte dell’Himalaya politico sono stati quei partiti che hanno scelto di identificarsi come al di fuori del sistema partitico stesso. Serrati dietro il conservatorismo della rivoluzione anti-liberale, questi gruppi politici si sono rafforzati nello scontro con lo svuotamento dell’esecutivo fino a giungere al paradosso politico in cui il partito con più consensi (quindi quello tecnicamente egemonico) è anche quello che va contro l’egemonia stessa e, pertanto, rimane relegato all’opposizione. È un gioco politico perverso in cui non conta più la decisione ma il decisore, in cui il gioco è facile per chi critica il governo poiché le scelte prese da questo rispondono a standard internazionali e sono necessariamente un compromesso (altro qui: https://framespolitics.wixsite.com/politics/post/la-necessità-di-una-deontologia-politica)


Il tramonto politico delle bandiere

Lo stato-nazione è in crisi e, con esso, i partiti, le bandiere egemoni. A dare sostegno a questa tesi sono i comportamenti contraddittori di alcuni leader che un giorno cantano l’ode al vento dell’est e il giorno dopo a quello dell’ovest; che, vagando senza punti di riferimento (in quella crisi prodotta dal tramonto dell'ideologia) nella realtà politica, si appropriano dei temi più caldi dell’elettorato, sfruttandoli e ricavando consenso che però non potranno mai utilizzare poiché l'ordine politico che tanto criticano è lo stesso che li metterebbe con le spalle al muro una volta al potere. E cosa ci fai con tutti quei soldi se non puoi spenderli? Cosa ci fai con tutti quei consensi se sai di non essere in grado di accontentarli? Intanto li conservi, poi li utilizzi per chiedere i pieni poteri.

Con rammarico viene allora da chiedersi se il pluralismo rappresenti ancora una garanzia e non uno strumento nelle mani dell'imprenditore politico. Se non sia ormai obsoleto un sistema in cui decisione già prese da altri vengono criticate da quelli che dovrebbero prenderle.



Per approfondire

Krastev I., Holmes S., 2020, La rivolta antiliberale, Mondadori



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