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Andrea Rao

L’Italia senza donne a Palazzo Chigi

La politica nelle ultime settimane è stata un susseguirsi di emozioni. Dalle dimissioni delle ministre e del sottosegretario di Italia Viva, che hanno comportato il crollo del governo Conte 2, alla nascita dell’esecutivo di Mario Draghi è passato poco più di un mese. Tuttavia l’opinione pubblica, forse distratta da tale girandola di eventi, non ha posto lo sguardo su una questione che la dice lunga sul processo evolutivo del nostro Paese.


Gli esempi europei

L’Italia nel corso della sua vita democratica non ha mai avuto una donna alla sua guida. Se si ripercorre la storia politica italiana si evince che mai un esponente del gentil sesso è diventato Presidente della Repubblica o del Consiglio dei ministri. Questa situazione mostra una contraddizione con l’impianto della Carta Costituzionale la quale afferma il principio dell’uguaglianza formale e sostanziale di tutti gli esseri umani a prescindere dalla diversità di genere e da altre discriminanti. In un ambito assai prestigioso e determinante per la vita pubblica come la sfera politica sembra paradossale che figure femminili non abbiano mai raggiunto negli anni due delle massime cariche dello Stato, nonostante abbiano ricoperto Presidenza di entrambe le Camere. Sotto questo punto di vista l’Italia si dimostra essere in ritardo con i tempi visto che molti Stati europei hanno avuto ed hanno alla loro guida donne titolari di indiscusso carisma e capacità.

Senza andare molto lontano negli anni basta porre mente alla Gran Bretagna che, sino a due anni fa, era guidata da Teresa May. Leader del Partito Conservatore la May ha guidato la vita politica britannica sino a quando le successe l’attuale primo ministro Johnson. Ma la patria di Sua Maestà merita un discorso a parte visto che è stata una delle prime a vedere una donna ricoprire ruoli nevralgici visto che Margaret Thatcher, già nel 1979, ottenne la nomina a Primo Ministro. Definita la “Iron Lady” riuscì a guidare la Gran Bretagna sino al 1990 e a realizzare importanti riforme (anche se talvolta controverse) destinate a lasciare un segno duraturo nell’economia inglese. Teresa May, fautrice delle prime trattative con l’Unione Europea per consentire la Brexit, è stata, dopo la Thatcher, l’unica donna ad abitare al n. 10 di Downing Street. Entrambe hanno attuato provvedimenti legislativi che hanno consentito evoluzioni storiche determinanti nella nazione d’oltralpe. Ma la lista delle leader politiche europee non si arresta qui. In Germania dal novembre 2005 la casella del cancellierato è occupata da Angela Merkel. La “Cancelliera di ferro” come è stata più volte nominata la Merkel (riprendendo il soprannome della Thatcher), ha avuto un ruolo fondamentale nella governance europea per lo sviluppo del Trattato di Lisbona e di altre azioni legislative di politica interna che hanno posto il Paese tedesco all’avanguardia nell’ambito dello sfruttamento delle risorse energetiche rinnovabili. Il tema trattato si arricchisce di notevoli e recenti esperienze relative ad alti Paesi dell’Unione. Nel 2019, in Slovacchia, è stata eletta la 47enne Zuzana Čaputová. Laureata in legge, di orientamento ambientalista e liberale, la leader slovacca ha iniziato una dura lotta contro la corruzione e attuato serie iniziative in chiave civile sostenendo apertamente il diritto di adozione per le coppie omosessuali. Soprattutto quest’ultimo aspetto fa di lei una ‘rivoluzionaria’ considerando che parliamo di uno Stato presente in un’area geografica dove il conservatorismo è stato molto spesso elemento fondante delle politiche pubbliche della cosiddetta “area di Visegràd” (spesso oggetto di notizia per leggi fortemente restrittive in tema di immigrazione e libertà di opinione). Andando ancora più ad Est troviamo l’esempio dell’Estonia. La Repubblica baltica è guidata da Kersti Kaljulaid che ha vinto le elezioni per la Presidenza della Repubblica estone dal 2016. La Kaljulaid è la prima donna a ricoprire questa carica e recentemente ha chiamato un’altra donna a risollevare le sorti del Paese; si tratta di Kaja Kallas, nominata primo ministro. Dal punto di vista prettamente politico lo Stato ex-Urss vuole continuare nel solco europeista e liberale allontanandosi dalle azioni conservatrici di Putin. Anche un altro Stato che si affaccia sul Baltico è a trazione femminile: Ingrida Šimonytė guida l’esecutivo della Lituania dallo scorso anno. Schierata a favore dei diritti civili, guida una composita maggioranza parlamentare che include partiti di centrodestra. Le quote rosa aumentano poi se si dà uno sguardo a Nord: in Islanda nel 2017 è stata nominata primo ministro Katrín Jakobsdóttir che, come la collega estone, ha dato un’impronta fortemente progressista all’azione politica del suo Paese. In Danimarca il primo ministro è, dal 2019, Mette Frederiksen, segretaria del Partito Socialdemocratico danese. La Frederiksen si discosta dal solco socialdemocratico e progressista delle appena citate in quanto ha vinto le elezioni assicurando leggi restrittive contro l’immigrazione e lo spreco in ambito assistenzialista. Sempre in Scandinavia si registra la presenza di Sanna Mirella Marin, che il 10 dicembre 2019 è stata eletta ministro capo della Repubblica Finlandese, mentre in Norvegia il ruolo di primo ministro è ricoperto da ormai otto anni da Erna Solberg, famosa per aver adottato provvedimenti sanzionatori nei confronti di Ungheria e Polonia poiché, come noto, si sono rese fautrici di violazioni varie in tema di diritti individuali e libertà d’espressione. In Georgia, infine, dal 2018 è Presidente della Repubblica Salomè Zourabichvili la quale ha dato una forte impronta europeista all’ex Stato sovietico.


Un partito maschilista?

La recente crisi del Partito Democratico, che ha avuto inizio con le dimissioni di Zingaretti, ha dato all’Italia un’occasione di rinnovamento. Come ben sanno coloro che prestano anche minima attenzione alla scena politica, in genere chi ricopre la carica di segretario del partito più forte all’interno della coalizione di maggioranza è stato spesso incaricato del mandato esplorativo dal Presidente della Repubblica e in alcuni casi ha ricoperto il ruolo di Presidente del Consiglio. A differenza di molti Stati europei il nostro sistema non presenta la possibilità di votazione diretta ma chi in campagna elettorale viene designato come futuro premier, ha buone chances di guidare Palazzo Chigi in caso di felice esito delle consultazioni elettorali. E allora viene da chiedersi come mai l’assemblea del Partito Democratico, teoricamente il maggior partito progressista italiano, non abbia pensato ad un nome femminile per il ruolo di segretario e futuro candidato alle elezioni politiche del 2023. Si tratta di una possibilità per riequilibrare la tendenza con altri Paesi dell’Unione e per dare una svolta in un’area dell’Europa in cui, fatta eccezione per la Germania, storicamente sono sempre mancate donne alla guida. Tuttavia le ultime vicissitudini confermano, ancora una volta, il naufragio di questa soluzione alla quale è stato preferito l’usato sicuro, rappresentato da Enrico Letta, ex inquilino di Palazzo Chigi fino al 2014. La speranza di un futuro a tinte rosa, anche ai vertici della Repubblica, magari riproponendo l’esempio avanguardista estone, resta oggetto di riflessione e dibattito, un’ipotesi viva insomma, seppur difficilmente realizzabile nell’immediato futuro.



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