Il virus influenzale resterà in circolo ancora per molto. In attesa del vaccino molti paesi colpiti dalla pandemia ricorrono al vecchio metodo “prove ed errori” per contenere il contagio e, allo stesso tempo, tornare ad una parvenza di vita pre-virus. Ma non tutti lo fanno allo stesso modo e, soprattutto, non con gli stessi risultati.
La nuova società
Socialità limitata significa ripensare tutto, dal centro città alla periferia, dalle attività sportive ai luoghi di culto, dalle località turistiche ai posti di lavoro. I primi mesi del 2020 hanno generato nella mente dell’uomo un nuovo bisogno legato alla sopravvivenza: l’uomo “nuovo” deve attenersi a regole, usi e abitudini cambiati radicalmente in tutto il mondo nello stesso momento, ma per "noi" occidentali molto di più. In meno di 3 mesi infatti i more economic developed country (MEDC) hanno tutti più o meno dovuto ripensare completamente la struttura sociale per esigenze legate alla rapida contagiosità del coronavirus, ma non tutti i paesi sono colpiti allo stesso modo. Età (sappiamo che il virus colpisce più duramente le fasce d'età più avanzata), abitudini culturali (in alcuni paesi il contatto è limitato e a distanza, in altri è norma salutarsi con baci e strette di mano), ambiente (sembrerebbe che, come il normale virus influenzale, la Covid-19 sia più suscettibile al caldo e meno vulnerabile al freddo) decisioni del governo (in Italia come in Cina il lock-down ha avuto, col tempo, gli effetti desiderati; altri paesi come Regno Unito, Brasile e USA, sottovalutando la portata del virus, ne stanno scontando ora le conseguenze): sono questi i parametri che il New York Times ha raccolto da interviste a numerosi esperti, parametri che provano a spiegare perché il virus sembra operare una vera e propria “selezione” geografica (disordinata e non metodica) dei paesi più colpiti. I paesi occidentali (in primis l’Italia) hanno subito maggiori contagi ed esperito non poche difficoltà affrontando un’emergenza pandemica mai vista prima nel mondo globalizzato, ma alcuni paesi (in particolare quelli asiatici) registrano pochi casi mentre altri limitrofi molti di più ed evidenziano una gestione dell’epidemia più razionale, perché forti di esperienze passate con altri virus. Nonostante la diversa diffusione dei contagi nel mondo, ad essere uniforme è stata la prima risposta alla pandemia, la cosiddetta fase 1: impedire viaggi all’estero, operare distanziamento sociale ed utilizzare mascherine e guanti, sono alcune delle soluzioni applicate (in maniera più o meno uniforme) da tutti i paesi i colpiti dall'emergenza. Il principio che unisce tutto il mondo sembra essere solo uno al netto delle differenze tra i paesi: contenere il virus ed aspettare il vaccino.
Come gestiscono la "privacy" ad est?
Mentre si fa sempre più impellente la necessità di fronteggiare l’emergenza arginando il lock-down, molti paesi sperimentano nuovi modelli di “società" in cui la tecnologia fa da portabandiera: app per il tracciamento in primis.
In Corea del Sud, paese che ha registrato pochissimi contagi, non c’è nemmeno stato un lockdown visto che i contagi totali sono attualmente poco più di 10.000 e il momento più critico è stato registrato nei primi giorni di marzo. I cittadini hanno rinunciato alla vita sociale perché “consapevoli” di cosa significa avere a che fare con un virus, tanto che in Corea non si è nemmeno registrato un picco, l’andamento della curva epidemica è stato costante così come il controllo del governo. In Sud Corea non si è creata un’app per il tracciamento da zero, perché già esisteva – è stata aggiornata e chiamata “corona100m” e, se ve lo state chiedendo, è molto invasiva e traccia gli spostamenti – e questo ha permesso al governo di Seul di tracciare e fare i test (tantissimi, più di ogni altro paese) a chiunque sospettato di essere entrato in contatto con un positivo. Il risultato è stato una gestione dell’epidemia quasi perfetta. Quasi perché, dopo aver allentato le restrizioni i sudcoreani sono tornati alla normalità (avevano aperto anche i locali della "movida" notturna) e dopo una settimana di contagi a zero, è scoppiato un nuovo focolaio a Seul. Senza il vaccino, la Corea, che ha gestito egregiamente l’emergenza, dimostra che l’utilizzo del lockdown a “targhe alterne” sarà inevitabile.
La Cina ha cominciato ad allentare le restrizioni quando molti paesi ad occidente hanno cominciato a chiudere, sono ormai 26 giorni che in Cina non vengono registrati decessi da Covid-19. I dati confermati, forniti da Pechino, parlano di 82 mila contagiati, di cui 67 mila solo a Wuhan, epicentro della pandemia, dove un nuovo caso torna dopo un mese (la città aveva infatti riaperto l’8 aprile). Anche se i dati cinesi devono essere presi con molta cautela, è un dato di fatto che alcune aziende stanno ripartendo, seppur con alti rischi per l’incolumità dei lavoratori. A Wuhan infatti le restrizioni sono molto severe, per chi non si attiene al protocollo, rendendo evidente che la cosiddetta “fase 2” sarà ben più complicata da gestire. Per il monitoraggio dei contagi il governo cinese assegna dei codici con cui tracciare le persone e selezionare chi può e chi non può uscire di casa. Anche qui, essendo il vaccino lontano dagli orizzonti nazionali, l’apparato governativo cerca soluzioni ricorrendo a strumenti tecnologici (ben poco attenti alla privacy) per cercare di allontanare l’incubo di un nuovo blocco totale.
Anche Taiwan, nonostante le vicinanze con la “madre” Cina, è un emblematico esempio di contenimento efficace del contagio, che è stato bassissimo mentre il controllo statale è stato altissimo. Sono state prodotte mascherine costantemente, fissandone il prezzo; hanno attuato pesantissime sanzioni sia pecuniarie che detentive a chi trasgredisce, a chi specula e anche a chi diffonde fake news sul virus; hanno monitorato i contagi attraverso i cellulari, fornendone uno a chi non lo aveva e controllando che questo rimanesse acceso. A Taiwan avevano già combattuto contro la SARS nel 2003 e, sulla stessa scia, il governo ha drasticamente e tempestivamente applicato le misure draconiane che erano state applicate durante l’ultima epidemia.
Un nuovo lockdown?
In Europa l’emergenza sta lentamente portando molti governi a spingere verso la riapertura controllata, emulando i paesi asiatici. Tuttavia il rischio di un nuovo lockdown deve rimanere alto.
Due elementi risultano evidenti nella ricostruzione dello scenario asiatico: l’importanza della tecnologia nel monitoraggio del virus e il forte intervento statale nella gestione dell'emergenza. Sono due peculiarità che rintracciamo facilmente in quei paesi asiatici in via di sviluppo in cui eventi straordinari impongono misure straordinarie. L’impatto di queste misure ricade tutto sui cittadini, che accettano (controvoglia ma senza troppe proteste - quella di Hong Kong del 2019 può essere considerata l'eccezione che conferma la regola) tali condizioni. Come abbiamo visto, paesi anche con un basso numero di contagi gestiscono le riaperture con molta cautela, allentando progressivamente le misure di “blocco” e controllando costantemente con test e tamponi il grado di diffusione. Ora, se una nuova chiusura sarebbe tremenda per paesi “esperti” nella gestione di virus e malattie (come lo sono i paesi asiatici), in occidente, dove eventi di questo tipo rappresentano l’eccezione, potremmo non trovarci pronti a gestire la seconda fase, quella più delicata. Un nuovo lock-down è possibile e sarebbe necessario se il virus dovesse tornare a circolare con la stessa forza di prima, e questo avrebbe conseguenze irreversibili per il nostro modello culturale. A questo punto dobbiamo per forza immaginare come sarebbe il nostro occidente se seguissimo le orme dei governi d’oriente.
Controllo e tracciamento
Le app di tracciamento sono, per loro natura, una minaccia concreta alla nostra amata privacy, eppure sono un utilissimo e fondamentale strumento di controllo per i governi che, in questi tempi, devono affrontare un avversario imprevedibile con ben poche carte a disposizione da giocare. Inoltre, come si vede dai paesi citati in precedenza, al momento sono l’unica garanzia di monitoraggio dei contagi. È fattibile pensare ad una forma di controllo come quella applicata dalla Corea del Sud anche nei paesi europei e nord americani? L’opinione pubblica come risponderebbe? Lo stile di vita occidentale sarà disposto a sacrificare parte dei propri diritti inviolabili per una ragione così (ma forse non abbastanza) importante?
Abuso di potere politico
Per rispondere alle domande sopracitate occorre ripensare il ruolo del potere esecutivo, non più solo in chiave democratica ma con un approccio più pratico. Le affermazioni di Donald Trump, al vertice dell’amministrazione della nazione più potente del XX secolo, fanno vacillare la tenuta dell’ordinamento liberale: accusare la Cina di aver manipolato il virus per spostare (nuovamente) l’attenzione su di un “nemico” da combattere in perfetto stile warzone è emblema del tramonto del dialogo, della diplomazia e, soprattutto, della responsabilità di un governo che adesso conta migliaia di morti al giorno, mentre un mese fa negava l’esistenza del virus. Se arriviamo al punto di dire “ho le prove, ma non posso fartele vedere”, se nascondiamo i corpi in fosse comuni nel Bronx senza spiegare alla nazione cosa sta succedendo, significa che ammettiamo che il modello "manipolatorio" tipico del governo cinese e del sud-est asiatico allora è utile, che serve nascondere per comandare. Allo stesso modo, il Regno Unito, baluardo della democrazia e dell’ordine conservativo, ha sottovalutato l’emergenza per poi vedere il proprio primo ministro ammalarsi di Covid-19. L’occidente ha sputato su quell’ordinamento basato sul diritto e sulla legittimità del potere politico, infettandolo con dinamiche di potere sempre più lontane dall’esecutivo e sempre più dipendenti dall’economia, il risultato non poteva essere diverso: l'economia in crisi e i governi in stallo.
Nell’antica Roma, in casi estremi in cui l’ordine della res publica era minacciato dall'esterno, veniva nominato, da un console e dal senato, un “dittatore” con poteri speciali e il compito di affrontare la crisi come "uomo solo al comando", per non più di sei mesi. Se dovessimo renderci conto che lo Stato di diritto non ha le caratteristiche necessarie per salvaguardare contemporaneamente la democrazia liberale e il suo prodotto (cioè il “cittadino”), un "sistema d'eccezione” sarebbe possibile? Chi sarebbe in grado di definirlo “legittimo”? Sono domande a cui la realtà occidentale moderna dovrebbe cominciare a trovare risposte, il rischio è quello di “ancorarsi” al modello agli antipodi, cioè quello dei paesi sopracitati che, con tutti i rischi e le limitazioni che comporta, sembra comunque essere più funzionale di quello ormai malato della democrazia liberale.
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