Ieri le violenze del regime di Min Aung Hliang hanno raggiunto l’apice. La giunta militare non ha esitato a sparare sulla folla ricorrendo anche ai cecchini. Secondo il sito Myanmar Now il bilancio è di almeno 91 persone uccise in oltre 40 città. Altre fonti contano circa 114 vittime. Sono civili, tra essi anche alcuni bambini.
Una storia difficile
Il Myanmar è una nazione democraticamente fragile da sempre. Dopo il lungo colonialismo britannico che comportò intensi legami legislativi con l'India, risolti soltanto nel 1937 con la concessione di una nuova costituzione, durante il secondo conflitto mondiale il Paese fu invaso dal Giappone. Il 27 marzo del 1945 l’esercito nazionale birmano attuò un’insurrezione contro il dominio nipponico e ancora oggi in questa data si celebra la giornata nazionale delle forze armate. Proprio ieri, invece, questa ricorrenza è stata teatro delle barbarie di cui è capace l’esercito.
I giapponesi abbandonarono la penisola nel maggio del 1945 e il 4 gennaio 1948 la Birmania ottenne finalmente l’indipendenza dal Regno Unito. Nel Paese il risentimento verso i britannici era tale che la Birmania rifiutò di entrare a far parte del Commonwealth, opzione che fu invece accolta con favore da Pakistan e India. Nel decennio successivo all’indipendenza la situazione economica migliorò, supportata anche da una relativa stabilità politica. A guidare la nazione in quegli anni fu la Lega della libertà popolare antifascista (AFPFL), una coalizione composta da partiti di matrice socialista. Ma la coesione interna al raggruppamento partitico si esaurì presto. U Nu, tre volte Primo Ministro della Birmania, si avvalse della collaborazione con il capo delle forze armate Ne Win per fronteggiare le crisi interne alla coalizione ma nel 1962 quest’ultimo rovesciò il governo di U Nu con un colpo di Stato. Ne Win rimarrà al potere fino al 1988 dimostrandosi spietato verso le manifestazioni di dissenso civile. Tragica la risoluzione del 7 giugno 1962 in cui fece assassinare oltre 100 studenti che stavano manifestando pacificamente a Yangon. Dopo la “rivolta 8888” in cui emerse a livello nazionale la figura di San Suu Kyi, che guidò la popolazione birmana nella protesta non violenta contro il regime militare, la Birmania cambiò nome in Myanmar nel 1989. Anche la protesta non violenta passata alla storia come “rivoluzione zafferano”, guidata da monaci buddisti, non ottenne gli effetti sperati e fino al 2011 è restata al potere la giunta militare di Than Shwe. Solo negli ultimi dieci anni è iniziata l’alternanza tra il Partito dell’Unione della Solidarietà e dello Sviluppo (estensione politica delle milizie) e la Lega Nazionale per la Democrazia. Oggi questo Paese dalla storia così travagliata e violenta sprofonda nuovamente nell’oblio anti-democratico.
Il golpe
Il primo febbraio 2021 il colpo di Stato militare guidato dal generale Min Aung Hliang ha rovesciato il governo democratico arrestando la leader della Lega Nazionale per la Democrazia, San Suu Kyi, premio Nobel per la pace nel 1991. Il partito aveva ottenuto una schiacciante maggioranza nelle elezioni tenute l’8 novembre del 2020 ma il risultato è stato contestato dal generale golpista che ha sollevato dubbi sulla legittimità dell’esito elettorale. In seguito al colpo di Stato la popolazione ha iniziato a protestare nelle principali città del Paese, Yangon e Mandalay, e dopo pochi giorni il regime militare ha iniziato a rispondere mietendo un numero sempre maggiore di vittime. Dopo la strage di ieri il bilancio arriva a circa 400 morti.
Oggi la polizia ha nuovamente aperto il fuoco in occasione della celebrazione del funerale di una delle persone assassinate ieri. A riferirlo, oltre all’agenzia Reuters, il Guardian. Dunque, nonostante lo sdegno internazionale, la repressione del regime continua.
Sanzioni e poco più
L’Occidente ha subito condannato il colpo di Stato e il presidente americano Joe Biden ha richiesto l’immediato rilascio di San Suu Kyi annunciando sanzioni per militari, politici e società private coinvolte nel golpe.
Il 28 febbraio il portavoce del Palazzo di Vetro, Stephane Dujarric, ha affermato che “l’uccisione dei manifestanti pacifici e gli arresti arbitrari, compresi quelli dei giornalisti, sono assolutamente inaccettabili”.
Ad oggi sono almeno 6 i giornalisti arrestati per aver documentato le violenze, sono accusati di aver diffuso notizie mendaci sulle operazioni militari. Com'è noto ogni regime ha premura di censurare la libera informazione e, non a caso, poco dopo il golpe di febbraio la giunta di Min Aung Hliang ha modificato una precedente legge che prevedeva una pena pari a due anni di reclusione per la diffusione di notizie false, portandola ora a tre anni. Anche gli appelli del segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, che ha più volte richiesto il rispetto dell’esito delle elezioni di novembre e che il 15 marzo aveva dichiarato “sgomento per l’escalation della violenza in Birmania”, aggiungendo che “l’uccisione dei manifestanti […] e la denunciata tortura dei prigionieri violano i diritti umani fondamentali”, sembrano rimasti inascoltati.
Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite si sta adoperando al fine di esortare la comunità internazionale a mobilitarsi per un’azione bilaterale al fine di arrestare la violenta repressione del regime militare. Tuttavia, almeno per ora, le intenzioni di contrasto alla giunta militare in Myanmar si sono tradotte in semplici sanzioni che, per l'Unione Europea, sono state annunciate dall’Alto Commissario per la politica estera Josep Borrell.
Purtroppo è difficile credere che attraverso sanzioni economiche si riuscirà a frenare questo massacro. I tragici eventi dei quali ci giunge notizia dovrebbero spingere le Nazioni Unite a studiare una linea di intervento che non si limiti a sanzionare. Appare sempre più necessaria un'azione diplomatica diretta che garatisca il rispetto delle scelte elettorali espresse dalla popolazione birmana.
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